Scriveva Ripellino della «calma nomenclatrice» con cui Osip Mandel’štam rispose ai fragorosi smottamenti del suo tempo. Di compostezza della sua opera, fino alle «schegge ultime che recano il suggello del martirio» parla anche Remo Faccani, traduttore di ottanta poesie nella bianca Einaudi (2009). Il carteggio riportato alla luce e ora tradotto – Epistolario Lettere a Nadja e agli altri 1907-1938 (a cura di Maria Gatti Racah, Giometti & Antonello, pp. 249, e 28,00) ci mostra il risvolto personale, domestico e tormentato, a tratti svagato, di uno dei poeti più alti del secolo scorso, dotato del privilegio di una intelligenza che non si umilia.

La «sagace amica»
Mescolata agli sporadici, infantili entusiasmi, l’immediatezza delle missive e dei dispacci telegrafici mette in risalto gli umori e le angustie, il senso di oppressione e le nevrosi, illuminando al tempo stesso il nucleo primo delle riflessioni che trovano posto negli scritti e nelle dichiarazioni ufficiali, in cui si riverberano gli echi dei versi che Mandel’štam andava scrivendo, mentre trapelano le immagini da lui fissate nelle prose del Rumore del tempo e del Francobollo egiziano. Ne viene fuori la concretezza del lavoro intellettuale e la tensione che sta dietro alle fulminazioni dei versi torniti allo spasimo, fino a sfociare nelle più scarne e trasparenti concrezioni verbali, in grumi tanto densi da diventare inafferrabili. A ciò si aggiunge tutto il penoso versante della quotidianità negli anni Venti e Trenta, con la penuria di denaro e l’estenuante brigare per ottenere lavoro su commissione, eseguito a ritmi forsennati, e poi la lotta contro le ristrettezze, il freddo e le avversità.

Prima fra gli interlocutori, la moglie, cui Mandel’stam deve l’esistenza stessa di una sua eredità letteraria: per lui che parla di sé come di un «nemico immaginario della realtà, un suo immaginario rinnegato», Nadja fa da intermediaria tra la realtà e la poesia, è indispensabile vestale, tenerissima sorella, «sagace amica». L’idillio a due è fatto di nomignoli e di desiderio, saturo di preoccupazioni ossessive, tramato di presentimenti e sensazioni di accerchiamento senza via di scampo; ma anche degli echi letterari di cui si imbeve il loro vissuto più prosaico. A Nadja, stabilitasi temporaneamente a Koktebel’, in Crimea, Mandel’stam scrive: «Mia cara bimbetta, mia bionda Nadik, perché ti ho mandato al confino al mare, come un Ovidio qualunque?» Con lei condivide ogni cosa: l’assillo della salute fisica e psichica, la premura per gli altri familiari, la ricerca affannosa di uno spazio vitale idoneo al lavoro intellettuale.

Se ancora nel ’22 Mandel’stam poteva lamentare «l’eterna battaglia col rumore», o lo strazio della «vita in una stanza», dopo gli interrogatori e l’arresto del ’34, dopo i tentativi di suicidio e il confino amministrativo a Voronež, si descriverà come vagabondo e indigente. A Nadja scrive del proposito di mettere fine, lui e lei insieme, alla loro vita, e le invierà l’ultima, lapidaria missiva vergata il 30 novembre 1938 dalla baracca n. 11 del lager di transito di Vladivostok.

Il «processo delle scimmie»
Rivive qui per bocca del poeta tutta la dolorosa pagina dello scontro (tra il ’28 e il ’29), con Arkadij Gornfel’d e l’accusa di plagio per la sua traduzione di Till Eulenspiegel. Del critico e traduttore scrive in una lettera ufficiale: «Mostra una tale indifferenza nei confronti di un letterato e di un suo più giovane contemporaneo, un tale disprezzo nei confronti del suo lavoro, un tale distacco riguardo ai legami sociali e alla solidarietà su cui si regge la letteratura, che si viene presi dalla paura per l’uomo e per lo scrittore». Mandel’štam chiama l’azione penale intentata contro di lui «Processo delle Scimmie» e ne evidenzia la fallacia: «Tutte le vostre delibere sono cucite con fili putridi, non stanno in piedi e si contraddicono l’una con l’altra».
Estende la discussione alla traduzione e alle prassi editoriali sovietiche che ne sviliscono la rilevanza culturale a «trasferimento di grano da un sacco all’altro».

Fin dai primi indizi smaschera l’efferato sistema che si va mettendo a punto per piegare ogni resistenza (ciò che nella Quarta prosa definirà «circoncisione letteraria»), e così commenta quanto gli accade: «È una vicenda sovietica, penosa e difficile, scomoda e terribile, come quelle che leggiamo ogni giorno sui giornali, un colpo basso contro un lavoratore, un torcergli il collo all’ultimo sangue, dove tutti i mezzi sono buoni, tutte le vie percorribili: calunnia, falsa testimonianza, capziosità, forzatura giornalistica». E a Anna Achmatova nel ’29, sugli strascichi di quella vicenda: «È l’ultima tappa della putrefazione. Viltà, menzogna, piaggeria».

Il progressivo affievolirsi delle sue energie vitali va di pari passo col serrarsi del cerchio intorno a lui, la studiata persecuzione di un uomo traboccante di orgoglio per il proprio lavoro: «Mi hanno imbrigliato, mi tengono come in prigione, non c’è luce. Continuo a voler scollare via la menzogna e non ci riesco, continuo a voler lavare via il fango e non si può».

L’epistolario registra l’altalena di speranze e sdegno, ma anche le temporanee schiarite, le parentesi quasi gioiose (l’oasi di Jalta nel ’25 e ’26), i progetti (ancora nel dicembre del ’37 studia lo spagnolo tanto da poter leggere il Poema del mio Cid).

Incontro al suo destino
Passato allo status di reietto, Mandel’štam ha il vuoto intorno, con alcune eccezioni: Šklovskij che a Mosca lo riceve con calore e lo immortala nel Viaggio sentimentale; Anna Achmatova, che a Leningrado va a riportargli lo scialle rosa di Nadja, e gli farà visita a Voronež; Marietta Šaginjan cui invia il manoscritto del Viaggio in Armenia; Babel’ che lo scongiura di «smetterla con le traduzioni e non soffocare più i pensieri e il lavoro vivo»; Pasternak che lo ospita spesso a dormire nel suo appartamento moscovita e lo sostiene: a lui si rivolgerà nel ’37, in una toccante lettera mai spedita, con espressioni di immensa stima e gratitudine per l’incomparabile «portata vitale» del suo lavoro, confessandogli il tormentoso timore di non rivederlo mai più.

All’inizio dello stesso anno, a un destinatario ignoto, scrive dall’esilio:«Nell’ordinata città sovietica di Voronež, sotto gli occhi di innumerevoli testimoni passivi, io sto scivolando fuori da ogni inquadramento sociale e non sono più di fatto un cittadino al confino amministrativo, ma un uomo-fantasma, la cui morte è consentita dalla passività generale». E a Tynjanov: «Per favore, non consideratemi un’ombra. Ombra ancora la getto».

Incisa nel ferro del suo secolo, la silhouette di Mandel’štam prende corpo così dalle lettere, che non lasciano dubbi sulla lucidità e la consapevolezza con cui, rifiutandosi di recedere di fronte agli avvertimenti e agli ostracismi, va incontro passo dopo passo al suo destino. Del resto – scrisse Brodskij – in lui «l’istinto di conservazione aveva da tempo lasciato il posto al senso estetico».