Sul calare dell’anno 1892 Paul Gauguin realizza Manaò Tupapaú. Lo Spirito dei Morti veglia: In dicembre spedisce da Tahiti la tela (cm. 73×92), con altre otto di recente eseguite, in Francia. In Noa Noa Gauguin racconta: «Fui un giorno obbligato di andare a Papeete. Avevo promesso di tornare la sera stessa, ma la vettura che avevo preso mi lasciò a mezza strada, dovetti fare il resto a piedi e rientrai nel cuore della notte. Avevamo al momento assai poco olio per l’illuminazione, la provvista andava rinnovata. Quando aprii la porta, la lampada esaurita, la stanza era nell’oscurità». Un’improvvisa apprensione, un senso di smarrimento: «subito accesi dei fiammiferi e vidi…».

Quanto Gauguin vide è raffigurato in Manaò Tupapaú. Sul letto, coricata sul ventre, immobile, Tehura, la giovane compagna del pittore, gli occhi spalancati per la paura, non vede com’egli sia ora davanti a lei, sulla soglia della camera. Tehura vede i tupapaú. Spentosi il lume, le cresce d’attorno il buio. Come una stoffa la avvolge. Lo sente depositarsi nero sulla sua nudità indifesa. Stoffa che lentamente la fascia, tramata di fili sensibili che si intrecciano, quasi fibra di organismi viventi. Organismi in perpetua metamorfosi, assumono aspetti tanto mutevoli quanto pervasivi. Nel buio, una speciale consistenza viene, piano piano, a depositarsi nei refoli d’un’aria ghiaccia. Tehura l’avverte trascorrere sulla pelle, a tratti, ma il brivido ne resta e presto gela. È tale il muoversi silenzioso dei tupapaú.

Lo sguardo di Tehura è vuoto perché non è volto verso l’esterno, ora che i tupapaú han fatto del corpo di Tehura il luogo dei loro palpabili transiti, così riducendolo integralmente a un ‘interno’, a un ‘dentro’, a un compiuto ‘al di là. Nel buio degli occhi sbarrati, di quando in quando, secondo ritmi che un rallentato battito del cuore distanzia, si espandono effimere efflorescenze luminose. Prendono il campo e vaniscono e non lasciano traccia. Sono i fosfori immemoriali, le opache stelle filanti, gli estenuati cenni di luci fatue che salgono dal fondo della tenebra e, subito, vaporano di nuovo facendosi buio. Nell’incerta, tremolante fiamma che per poco sta accesa, Gauguin vede la paura di Tehura. Alla luce breve di un fiammifero, che d’un subito lampa e d’un tratto muore, vede Tehura: «pensa al tupapaú e il tupapaú pensa a lei». È la paura che sorge, afferra e non arretra, non cede nel contatto con il tupapaú ovvero lo Spirito dei Morti che attraversa mente e corpo.

Lo Spirito dei Morti «per i Canachi è la paura costante, scrive Gauguin. La notte una lampada è sempre accesa. Nessuno circola in strada quando non c’è la luna, a meno d’avere un fanale e, in ogni caso, si va in molti insieme». Come ha da rendersi in pittura il terrore che ha immobilizzato le membra e l’anima della giovane donna alla presenza dello Spirto dei Morti? Manaò Tupapaú è un quadro dagli smaglianti colori. Se con lo sguardo ne risaliamo, dall’inferiore, i tre livelli che orizzontalmente lo compongono, osserviamo che il superiore, ovvero il terzo, ottiene uno sfondo accogliendo una avveduta mescolanza delle tinte impiegate negli altri due, a formare un variegato, prezioso impasto. Questa accurata risultante cromatica trascorre dai violetti ai bruciati, e in essa flottano tre piccoli lampi chiari, come tre fiori sospesi. Il primo livello, quello inferiore, eclatante, fa vibrare un festone di giallo di cadmio scuro adagiato su un blu. Il livello centrale mima il movimento di due onde congiunte: unisce un compatto marrone dalle lumeggiature ambrate a un alveo giallo. Giallo perché, dice Gauguin, il giallo «suscita nell’osservatore qualcosa di inaspettato.

E perché suggerisce l’illuminazione d’una lampada, cosa che mi evita di fare un effetto di lampada». Gli orli dei campi cromatici complementari condotti come linee ondulate, armonizzano le correlazioni imposte ai colori ed enfatizzano quell’evidenza assoluta che, in un batter di ciglia, assume talvolta un’immagine. Qui, dice Gauguin una: «armonia generale cupa, triste, spaventosa risuonante nell’occhio come un rintocco funebre».