LUNEDÌ. Interno giorno. Il padre va in studio. Io e il figlio rimaniamo da soli ma litighiamo sui compiti non fatti, mentre giocava ai giochetti, sta cosa mi manda ai matti.
Interno sera. Alla fine come risultato della lite riesco a farlo lavare: addirittura bagno nella vasca. Se entro pure io col padre facciamo The Dreamers (Bertolucci, 2003): mica male sarebbe (non in senso incestuoso, ovviamente).

MARTEDÌ.Interno/esterno giorno. Di nuovo seduta telefonica psicoanalitica in terrazzino (alla fine della quarantena sarò nera come dopo una vacanza alle Seychelles). Marito nervoso come un picchio pulisce tutta la stanza del figlio per organizzarsi una sua postazione lavorativa. Nevrotico e scortese non si accorge delle delicatezze cibarie che ho preparato per loro. Mi pare di vivere in Dogville, (Lars von Trier, 2003), nella divisione degli spazi col gessetto per terra degli studi cinematografici. Lo porto da una parte all’altra della casa per parlare privatamente, senza separazioni in muratura.

MERCOLEDÌ. Interno giorno. Mio marito ha quattro ore di lezione smart working con studenti coreani, americani, turchi da Miami (meno 9 ore di fuso orario), Seul (più 7 ore), un posto di campagna nei pressi di New York (meno 6 ore), Hong Kong (più 8), Istanbul (stesso nostro fuso: avranno o non avranno messo l’ora legale?). Come fosse Gordon Gekko (Michael Douglas), broker adrenalinizzato da droghe alla ricerca dell’affare di borsa perfetto in Wall Street (1987). Nel frattempo il figlio suona il flauto traverso in videochiamata con la prof. Riesco a scrivere un po’. Poi facciamo i biscotti. Alle cinque comincia la Grande mondanità su Skype con auguri di compleanno al figlio del mio migliore amico che vive a Bologna. Salta la linea, alle sei ci incrociamo su whatsapp con la mia amica milanese col figlio seienne che adora il mio: giocano a un giochetto online (odio).

Interno sera. Alle otto mi rendo conto che è il compleanno di un amico caro (l’ultimo con cui siamo stati a cena, addirittura sabato 7 marzo), allora ci infiliamo in una riunione zoom ma in vero abbiamo un appuntamento a cena con una famiglia di amici carissimi che stanno in Umbria (beati loro, geni a correre nella casa in campagna la mattina del blocco). Allegria e quasi normalità (a parte la separazione virtuale del monitor per colpa della quale non ci possiamo scambiare le pietanze).

GIOVEDÌ. Interno giorno. Lezione del figlio alle otto. Brutto tempo: e la vitamina D ora dove la prendo? Mi manca lo sfogo del terrazzino. Tutti svegli. A nessuno va di pulire (tò, che strano…). Svuoto la lavastoviglie (cosa che detesto) e butto i fiori appassiti (dopo ventuno giorni dal mio compleanno: commozione).

Interno sera. Lite quasi col figlio perché dice che sono cattiva che dico cose cattive, lo offendo. Mi fa sentire Mammina cara, vera storia della figlia di Joan Crawford, madre assente e sadica (Frank Perry, 1981). Gli chiedo scusa perché ha ragione: getto su di lui le mie preoccupazioni cercando di farmi sollevare dall’ansia per mia madre. Mi manda via e la chiama lui. Quando finisce la telefonata torna da me e mi dice: Mumma (come lui la chiama da sempre) sta bene. Mi da la zeppa, come si diceva un tempo.

VENERDÌ. Esterno giorno. Devo andare in banca per ritirare la carta di credito (quando più utile di ora? mai). Poi paranoia di spesa per mamma in fila con mascherina seria (procacciata dalla fidata farmacista). Passo dalla genitrice e un po’ mi avvilisco perché sta a letto. Per rifarmi faccio la fila pure per la spesa per noi, sotto casa. Grande mondanità chiacchiere con la vicina di casa e un’altra tipa. Non è la fila di Io e Annie (Woody Allen, 1977) colta e pregnante in cui, colpo di scena, sbuca fuori Marshall McLuhan, celebre sociologo canadese, citato erroneamente a bacchettarli. Prendo cose gustose per fare allegria a tavola o fuori: involtini primavera, pizza rossa e bianca, datteri israeliani giganti, cioccolata bianca con le fave di cioccolato.

Interno pomeriggio. Faccio yoga con gioia (che non è un’amica, magari, solo un sentimento, raro di questi tempi). Scazzo con marito, quando sono tutta bella rilassata, che non mi ha aperto l’acqua della vasca (getto lento dell’acqua, ci mette un botto a riempirsi), come gli avevo chiesto prima di cominciare la pratica.
Nella telefonata serale con mio padre lo sento agitato perché non ha le mascherine allora, una volta messo giù, scrivo un messaggio alla dottoressa della mia farmacia che ce ne ha già procurate un paio per noi e le chiedo se per caso potrebbe prenotarne un altro paio per mio padre e sua moglie. Lei mi risponde con un emoticon con l’occhiolino.

SABATO. Interno giorno. Ahi noi è arrivato il giorno delle pulizie. Il marito fa il furbo e prende la palla dell’immondizia che ci sta per sommergere (umido, plastica, carta, indifferenziata) e della spesa settimanale e si dà alla macchia.
Resto col ragazzo che si impegna a passare l’aspirapolvere in tutto il salone. Mi spezzo la schiena affrontando tutte le aree della casa più sozze. Mi meriterei il bagno nella vasca che non sono riuscita a fare ieri e invece al termine mi concedo giusto una doccia per non sporcare troppo. Il marito in farmacia ha trovato le agognate mascherine per il mio genitore ansioso (giustamente). Pranzo di pollo con ricetta del marito.

Esterno pomeriggio. Esco per il secondo giorno consecutivo. Andare da mio padre è 1 chilometro esatto di distanza, dice Google Maps. Camminare più dei 200 metri consentiti mi getta subito nel ruolo di criminale incallito che conosce le strade meno frequentate, che fa il vago per non essere visto, che tiene gli occhi bassi sul marciapiede nella speranza di non incontrare nessuno: anche se non è notte mi sembra di essere perseguitata e mi guardo sempre dietro la schiena come in M – Il mostro di Düsseldorf (1931). Spaccio di mascherine, di questo potrei essere accusata.

DOMENICA. Esterno giorno. È già domenica? Ma non era domenica anche ieri? Bah, chi ci capisce è bravo. Esco alla volta di una edicola aperta nei paraggi. Sono pressoché tutte chiuse. Faccio il giro delle sette chiese anche se non si dovrebbe, ma nessuno mi nota né mi ferma. Arrivo a Campo de’ fiori dalla mia edicolante preferita (edicolante per diciotto anni di vita, attrice in un mio corto, testimone intervistata con sua figlia in un mio documentario, mille vite fa). Lei è aperta, coraggiosa. Ci salutiamo con affetto, prendo due copie del giornale e due inserti e due libri (l’emozione di trovare dei libri!). Fahrenheit 451 (François Truffaut, 1966) la libreria è chiusa ma il clima somiglia a quello della pila di volumi da bruciare in piazza, qui guarda caso dove bruciò Giordano Bruno.

Interno notte. Vado in camera di mio figlio dopo cena e istintivamente gli sto preparando i vestiti per andare a scuola l’indomani. Attenzione. Il mondo è fermo, non è più quello di prima, ricordatelo, Fabiana. Torno di là facendo finta di niente, sapendo che dirlo aprirebbe lo squarcio che ognuno di noi ogni giorno, ogni istante, sta lavorando per ricucire.
Prima di dormire, però, sogno ad occhi aperti di essere in campagna, dove non sono e non sarò chissà per quanto tempo.

*regista