È stata depositata il 4 giugno una sentenza della corte di appello di Napoli importante sia per quel che dispone, sia per i principi affermati. Si può sintetizzare in due parole: mamma subito. Si riforma la sentenza del tribunale dei minori di Napoli che aveva rifiutato l’adozione per casi eccezionali prevista dall’art. 44 della legge 18/1983 a una donna che la richiedeva per il figlio della compagna cui era unita civilmente, nato a seguito di fecondazione eterologa.

Il rifiuto era fondato sull’argomento che la legge 18/1983, trattandosi di persone non formalmente coniugate, avrebbe comportato la concentrazione della genitorialità sulla sola adottante. Ne sarebbe stata privata quindi la mamma biologica, con danno anche al minore di cui si chiedeva l’adozione. In sostanza, la pronuncia del tribunale dei minori assumeva in premessa una insuperabile diversità tra matrimonio e unione civile. Portando a un esito aberrante e lontano da una ormai ampia giurisprudenza, che ha utilizzato l’art. 44 per aprire la via della genitorialità a coppie del medesimo sesso.

La corte di appello argomenta invece che la responsabilità genitoriale è comune se il progetto di procreazione è condiviso. Mettere al centro quel progetto significa muoversi verso un concetto di famiglia che prescinde dalla natura eterosessuale o meno della coppia, e dalla modalità della procreazione stessa: da quella naturale, a quella assistita, all’utero in affitto.

La corte concede dunque l’adozione richiesta affermando la comune responsabilità genitoriale. Ma sottolinea che lo status di genitrice andrebbe riconosciuto ad entrambe le componenti della coppia dall’inizio, per la condivisione del progetto di genitorialità, e non per la via di una adozione successiva. Nella specie, due mamme, da subito. E lo stesso principio sarebbe applicabile a una coppia di uomini.
Qui l’innovazione. Il legame genitoriale non si forma in realtà per la via giudiziaria e con l’adozione, ma è in re ipsa, nella volontà condivisa di avere un figlio. In breve, ogni diversità tra coppia eterosessuale e omosessuale, e tra modalità di procreazione, viene assorbita dall’aspetto in assoluto più importante: la comune volontà di assumere insieme la responsabilità di una nuova vita.

È un approdo positivo per una via iniziata male con la debole pronuncia (138/2010) in cui la corte costituzionale legava il concetto di matrimonio di cui all’art. 29 Cost. alla definizione, data dal codice civile del 1942, di coppia necessariamente eterosessuale. E solo parzialmente ha poi recuperato con la sent. 170/2014, in cui ha affermato il diritto della coppia del medesimo sesso a una piena tutela giuridica, ma rimessa per l’attuazione al legislatore, e comunque confermata come diversa rispetto al matrimonio. Con la sentenza della corte di appello di Napoli ci si avvicina alla meta di una piena eguaglianza, ancora una volta per la via giudiziaria.

Non sfugge che la sentenza collide frontalmente con il pensiero di persone come il ministro Fontana. E ricordiamo che sulle unioni civili (l. 76/2016, cd Cirinnà) salvo dissensi individuali la Lega e Fi-Pdl votarono contro. Fdi non partecipò al voto e M5s si astenne. Oggi non si può escludere che qualcuno scenda in trincea per la difesa di una definizione giuridica e formale della famiglia. L’argine dato dal silenzio del contratto di governo è fragile. Potrebbe bloccare Palazzo Chigi. Ma potrebbe mai fermare una iniziativa parlamentare, magari ispirata o occultamente sostenuta da qualche stanza di quel Palazzo, sulla quale l’esecutivo avrebbe la comoda via di uscita di rimettersi formalmente all’Aula e al voto di coscienza?

C’è una parte codina e retriva del paese che non demorde, e che nella deriva di destra in atto richiede attenzione. La via giudiziaria alla tutela dei diritti può essere tortuosa, e talvolta sbarrata, come è stato per la pronuncia della Cassazione sul licenziamento di cinque operai Fca, che ho criticato su queste pagine. Tuttavia, può ben accadere – come in questo caso – che il giudice sappia essere interprete di un mondo che cambia. E questo ci dice che dobbiamo sempre e comunque difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da un virus che circola a Palazzo Chigi. L’ha lasciato Berlusconi, è contagioso, e resiste a ogni trattamento.

Lettera di Luisa Muraro del 14 luglio 2018

«Tu, che cosa hai capito?» Questo vorrei chiedere a chi ha notato quel titolo di giorni fa, «Mamme subito, senza distinzione di genere» (il manifesto, Massimo Villone, 8 luglio scorso).

Io ho pensato ai due famosi gemelli Romolo e Remo che in effetti hanno trovato una mamma in tempo per salvarsi, l’hanno trovata fuori dal genere umano nella (anche lei famosa) lupa che li ha allattati.

Mi sbagliavo.

L’oscuro significato del titolo s’illumina alla lettura dell’articolo. Si tratta della rivendicazione di un nuovo diritto maschile, alla maternità. Vorrei protestare in nome del buon senso, che però scarseggia e ripiego sull’autorità di Judith Butler che dice: la differenza sessuale è un’occasione per pensare i rapporti tra natura e cultura.

Fino a tempi recenti gli uomini erano il primo sesso di fatto e di diritto, cioè nella realtà e nei codici. Da quando la maschilità ha smesso di essere un titolo sicuro di superiorità, ecco che, nelle teorie filosofiche, la differenza sessuale ha smesso di essere naturale, è diventata culturale e, per finire, relativa.

Spiego il relativo: quando insegnavo una materia altamente opinabile come la pedagogia, alle mie domande le studentesse rispondevano: «dipende». E io: «da che cosa?» E loro: «a seconda»… Se la magistratura (o altra autorità pubblica) prende una qualche decisione in favore della maternità di coppie femminili, ecco che prontamente ci sono coppie maschili che si fanno avanti per reclamare lo stesso trattamento. Mai si erano visti uomini tanto pronti a spartire con le donne il loro destino, mai.

Ma la cosa ha la sua spiegazione, l’articolo in questione ce la dà. «Noi», dice, ci muoviamo «verso un concetto di famiglia che prescinde dalla natura eterosessuale o meno della coppia, e dalla modalità della procreazione stessa: da quella naturale, a quella assistita, all’utero in affitto». Che vuol dire, in pratica, prescindere dall’essere corpo, con quello che comporta nella procreazione per un uomo o per una donna, rispettivamente, come anche: prescindere dal mercato che si è formato intorno alla fecondità femminile e alla gestazione.

A prescindere è la prima parola chiave, la seconda è dipende. Con tutto questo prescindere dalle condizioni materiali, con tutto questo affidarsi ai diritti e alle leggi o alla magistratura, non succederà che alla fin fine la risposta definitiva sia questa: «Lei mi chiede da che cosa dipende? Ma è chiaro, dai soldi».

Luisa Muraro