Giovane talento che a ogni nuovo lavoro riesce a ratificare l’interessamento e lo stupore , il chitarrista Paolo Spaccamonti pubblica il 20 settembre Volume quattro (Escape From Today/Dunque). Il suo ultimo disco solista del 2015 si intitolava Rumors, prima c’è stato Buone notizie del 2011 e Undici pezzi facili del 2009, ciò significa prendersi un tempo che all’oggi sembra essere abbastanza lungo per un musicista, malgrado nel mezzo, nel suo caso, ci siano tante collaborazioni e progetti come Cormorani, Torturatori, Cln e Young till i die: «Essere sempre presenti sul mercato è un modo molto efficace per suonare dal vivo, a volte l’unico – spiega l’artista torinese – e non sempre è un bene. Per scrivere e ragionare su un disco ho bisogno di vivere. Su questo ho iniziato a ragionarci nel 2016 ma la scintilla è poi scattata quando sono stato invitato ad aprire il concerto di John Carpenter. Sono cresciuto con i suoi film, quindi ho preparato un set speciale in cui venivo affiancato da Gup Alcaro (sound designer nonché suo collaboratore di fiducia e produttore, ndr) che processava la mia chitarra in tempo reale modificandola fino a farla diventare altro, una sorta di nuova scrittura istantanea. Ripartire dal suono della chitarra senza troppi fronzoli poteva essere la strada giusta». È troppo semplice parlare di un artista sperimentale o d’avanguardia, perché può sembrare anche poco penetrabile. Invece anche questo nuovo album è di certo concettuale, ma fra le note si intercettano gli stati d’animo dell’autore (e i nostri), una malinconica architettura ben piantata sul silenzio, dove vige un senso di caduta, una discesa oscura, che poi si riaccende di luce: «Il silenzio, in generale, le pause e i suoni d’ambiente hanno avuto una parte determinante in questo disco. La malinconia invece non è voluta, ma mi rendo conto che fa parte di me. Fortunatamente nella vita non sono così cupo ma ogni volta che scrivo qualcosa inevitabilmente la bilancia pende sul nero».

PAOLO HA INIZIATO a suonare la chitarra guardando i video degli AC/DC. In questo disco la chitarra è forse ancora più centrale che negli altri, pochi effetti, scorre ma rilascia continue suggestioni. I suoi dischi hanno uno stile preciso che non tradisce mai. I live potrebbero immaginarsi per un pubblico di nicchia, eppure dal vivo si può notare come riesca a trascinare in un viaggio anche un pubblico eterogeneo: «Mi è capitato di suonare in contesti dove nessuno aveva idea di chi fossi e ricevere ovazioni. Viceversa, in contesti più protetti, di essere completamente ignorato. Non dimenticherò mai una signora in là con gli anni che attirata dal suono è entrata in questa biblioteca in cui stavo suonando e a fine concerto mi si è avvicinata con gli occhi lucidi. Pochi giorni dopo ho suonato lo stesso set e degli ubriachi mi hanno insultato per tutto il concerto. È un mistero».

OLTRE AI DISCHI ci sono le collaborazioni nei reading, lavori per il cinema, film muti musicati: «Viviamo in un periodo storico in cui l’imbarbarimento è sotto gli occhi di tutti… Nel mio piccolo cerco di alzare l’asticella scegliendo accuratamente i lavori su cui investire il mio tempo. A costo di morire di fame. Prima di impegnarmi con il Museo del Cinema di Torino non mi sarei mai sognato di musicare un film muto. Recentemente ho collaborato con Michela Lucenti nella performance intitolata Pezzo Orbitale, incentrata su il Libro dell’inquietudine di Pessoa. L’abbiamo presentata nel festival di artisti di strada di Pennabilli, in pieno giorno, con famiglie che scorrazzavano e 40 gradi all’ombra. Tutto contro. Il pubblico a fine spettacolo era impietrito. Ecco, questo per me è fare resistenza».