Si apre con una morte che ha il sapore piano e insistente dell’assenza La casa del tè, il romanzo d’esordio di Valerio Principessa (Feltrinelli, pp. 285, euro 16). Una morte come elemento irriducibile di un accadimento già passato e completamente esaurito. Si è conclusa la vita con Berta per Gabriel, e tutto sta per cambiare per sempre. Lei che si è presa cura di lui non c’è più e improvvisamente il silenzio con cui Gabriel riempie ogni stanza e luogo deborda come un suono continuo, un battere preciso del tempo e del suo trascorrere. Il rumore bianco del tempo e della sua inconsistenza brucia ogni colore mentre le pagine del romanzo accelerano improvvisamente correndo a ritroso.

LA NARRAZIONE de La casa del tè, in un continuo doppio movimento, fa ricorso a quella memoria a cui Gabriel icasticamente e per nulla malinconicamente prova ad aggrapparsi, tentando una fuga possibile dalla bolla di assoluta irrealtà fatta della quotidianità frenetica (quanto assurda) che lo circonda. Mentre attorno il mondo pare prendere fuoco, lui finge un’ostinata inamovibilità perché in realtà i suoi occhi osservano, e la sua mente registra ogni più piccolo scatto, come una potente lente ottica. Gabriel sa leggere con molta distanza dalle cose come dalle persone, anzi la distanza è la necessaria messa a fuoco con cui interpretare il mondo e provare a comprenderlo, anche se le sue forme sembrano inconciliabili, dolorose e sovente contraddittorie.

PRINCIPESSA ha dato corpo a un personaggio originale e raro nella letteratura contemporanea, una figura a tratti potentemente simbolica quanto vivida e realistica che ben si tiene alla larga da una attualità tutta di maniera. La vita stessa sembra contenersi nelle parole possibili e immaginabili. C’è una forma di ricercata malinconia in una narrazione che con grande sicurezza ancora offre una possibilità all’immaginario che la parola può costituire.

GABRIEL PORTA IL LETTORE in un mondo sconosciuto quanto prossimo, tra le ombre dove le forme cambiano repentinamente e dove i segreti possono apparire come naturali conseguenze. Principessa dosa ogni pagina e lo fa con un linguaggio a tratti telegrafico che solo raramente decide di sciogliere liberando la forza emotiva di Gabriel. Un po’ Pinocchio, un po’ Bartleby che bloccato in questo tempo eterno cerca con astuzia e ingenuità nel medesimo tempo una possibilità di fuga. Le ferite, figlie dei dolori passati divengono così il segno evidente di un’altra vita possibile, di quel passaggio necessario da un’amore infelice ad una resistenza allegra che capovolga i termini. Gabriel ha imparato a conoscere bene le parole e questo diviene la sua possibile salvezza. La casa del tè è il romanzo di una cura, quella di cui necessità una generazione spesso soffocata da affetti e attenzioni di maniera, utili solo a cancellarla dalla vista. La vita dura e complicata di Gabriel e dei suoi giovani amici rivela qui sorprendentemente una forma di estasi: una nudità felice davanti al mondo, senza più alcuna paura.