Se nei prossimi anni continueremo con impegno a ragionare intorno ai temi del design industriale svincolato dalle richieste del consumo, o a sostenere la difesa dell’ambiente seguendo i progressi della scienza, o ancora a vigilare sui meccanismi di omologazione del sapere con i suoi conseguenti rischi, non si potrà che fare riferimento al pensiero rigoroso e poliedrico di Tomás Maldonado, scomparso ieri a Milano, la città nella quale si trasferì nel 1976 dopo avere insegnato dal 1954 alla Hochschule für Gestaltung di Ulm – il prestigioso istituto erede della lezione del Bauhaus – e averla diretta tra il 1962 e il 1966.

MALDONADO, nato a Buenos Aires nel 1922, formatosi come artista all’interno dell’avanguardia argentina dell’arte concreta, prima di trasferirsi in Europa alla metà degli anni 50, ha incarnato una singolare personalità di intellettuale umanista, antidogmatico e ricco di autoriflessione (Che cos’è un intellettuale? Avventure e disavventure di un ruolo, 1995). Rivolto verso una visione positiva del confronto tra il progetto e l’industria, studiò lo sviluppo della conoscenza scientifica nelle società del capitalismo avanzato nelle sue implicazioni non solo sociali ma soprattutto collegate al futuro della conoscenza.

S’INTERROGÒ prima di altri su cosa avrebbe causato l’avvento dell’Homo digitalis, con la stessa serietà e spirito «eterodosso» con il quale negli anni 60 si interessò di comunicazione visiva e di semiotica e che trasferì nei suoi lavori per Olivetti, La Rinascente e nella direzione di riviste (Casabella).

Nel corso del suo lungo periodo di insegnamento in Italia – prima Design ambientale all’Università di Bologna (1976-1984) poi Progettazione ambientale (di seguito industriale) al Politecnico di Milano (1985-1994) – pur critico dei modelli delle società industriali, si distinse dalle posizioni più radicali di coloro che guardavano alla decrescita (Latouche), al localismo (Bauman) o alle «tecnologie povere» (Papanek) per superare le disuguaglianze del mondo. Maldonado, al contrario, non smise mai di approfondire i meccanismi con i quali accadono le trasformazioni nelle nostre società opulente, ancora prima di essere globalizzate, considerando antimoderna e romantica qualsiasi contestazione che non fosse fondata sui caratteri immanenti di ciò che definiamo ancora progresso. Questo non gli impedì di essere severo nel giudizio sulla società contemporanea, in particolare di quella telematica così come configurata con lo sviluppo di internet. In Critica della ragione informatica (1997) mostrò tutte le sue perplessità verso gli utenti della rete che si sarebbero potuti mutare in «vicari» dei «tradizionali detentori del potere».

È DI UNA SORPRENDENTE attualità il suo timore che nelle comunità virtuali si esprima una falsa socializzazione che pone in pericolo la democrazia. Sarà necessario tornare alla lettura delle sue saggi, tutti editi da Feltrinelli, da Il futuro della modernità (1990) a Reale e virtuale (1994) oltre ai testi ormai divenuti dei classici, come Disegno industriale: un riesame (1991), per comprendere l’importanza della perdita di Maldonado.