Maldestro fa sul serio
Sanremo Il cantautore napoletano, secondo nella gara giovani con «Canzone per Federica», ha vinto il premio della critica Mia Martini e il premio Jannacci: «Se arrivi al festival con un tuo progetto fatto di sacrificio e indipendenza e ti permettono di esprimerti, liberamente è una grandissima vittoria»
Sanremo Il cantautore napoletano, secondo nella gara giovani con «Canzone per Federica», ha vinto il premio della critica Mia Martini e il premio Jannacci: «Se arrivi al festival con un tuo progetto fatto di sacrificio e indipendenza e ti permettono di esprimerti, liberamente è una grandissima vittoria»
«Eduardo diceva che il teatro è un gioco serio. Io lo penso anche della musica». Maldestro, vero nome Antonio Prestieri, beve un caffè l’ultimo giorno del festival incastrato in una sala stampa satura di gente. Per lui è la giornata della raccolta, ha vinto tutto quello che gli interessava vincere, dal premio della critica al premio Jannacci e poi ancora Lunezia e Assomusica. Maldestro è il cantautore, ne incarna le fattezze, il percorso, il talento, le ideologie. Ne ha riportato in auge il fascino sul palco dell’Ariston. «Se arrivi a Sanremo con un tuo progetto fatto di sacrificio e indipendenza e ti permettono di esprimerti liberamente davanti a milioni di persone è una grandissima vittoria».
Lui rappresenta quella musica vera fatta di gavetta sudata e a volte dolorosa ma anche indispensabile «so cosa vuol dire stare su un palco, non sentirsi in spia e continuare a suonare», quella musica che contamina ogni luogo dal pub al teatro al tubo catodico. Quella musica che a un certo punto ti fa disperare e cercare un altro mestiere, qualsiasi altro lavoro pur di sopravvivere, come raccontava anche Zucchero in conferenza stampa: «Non ho nulla contro i talent-continua Maldestro- però mi dispiace per certi giovani che si chiudono nella scatola della tv e vengono catapultati in questo mondo senza neppure un concerto alle spalle. La musica per me deve essere fatta per e con la gente».
Sarà perché a lui suonare e scrivere lo hanno salvato: «Qualche tempo fa ho fatto pulizia tra le vecchie cose e ho trovato dei versi di quando avevo 9 anni: tutti moriamo ma non tutti viviamo veramente. Stavo parecchio male». Un’adolescenza complicata, in una Napoli violenta e un padre camorrista, oggi collaboratore di giustizia: «Spero per lui che si sia pentito veramente. Il mio vero padre è mia madre, è a lei che faccio gli auguri il 19 marzo».
Canzone per Federica racconta del passaggio dall’adolescenza all’adultità, un nodo complicato e cruciale dell’esistenza: «Fatto di voglia di spaccare il mondo, conflitti con i genitori, mal di testa. Spero di essere riuscito a raccontarlo bene». Il teatro è la sua dimensione, ci lavora da 16 anni, cantando, scrivendo, girando l’Italia in lungo e in largo: «E’ il mio rifugio e credo sia rimasto l’unico posto al mondo dove si possa ancora raccontare la verità. T’insegna ciò che sta dietro anche alla musica: la disciplina, il rispetto, il rigore. E anche il silenzio».
È stato un festival parecchio napoletano che ha sancito un po’ la fine di un’epoca: «Mi dispiace molto che Gigi sia uscito. È una persona di una generosità e di un’ironia fuori dal comune. Questo è un mondo in cui sono tanti personaggi e poche persone e lui fa parte della seconda categoria. E per quanto riguarda le illazioni su di lui come camorrista, da napoletano, rispondo con ciò che ha detto di lui Cantone: d’Alessio alla camorra ha dato solo una manciata di canzoni».
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