Se molta attenzione nelle ultime settimane è stata dedicata all’eterogeneo fenomeno «no-vax», non abbastanza si è riflettuto sulle ragioni della diffidenza nei confronti del vaccino, sulle sue matrici socio-culturali e sulla diffusione della mala informazione. Tra quei dieci milioni di italiani che devono ancora essere inoculati vi sono i contrari convinti, i diffidenti della medicina «ufficiale», gli incerti e quelli che prima o poi lo faranno. Per convincere questa vasta platea, il nostro governo ha scelto la via dell’obbligo di certificazione. È questa la via più efficace?

Molti dei non vaccinati nutrono legittimi dubbi sul vaccino mentre altri hanno informazioni parziali, distorte, finanche erronee. Alcuni, invece, hanno difficoltà legate al loro generale stato di salute o alla loro personale esperienza della medicina. E queste sono le persone più esposte perché, pur rispettando le norme di sicurezza e temendo fortemente il virus, non hanno la sufficiente convinzione necessaria ad inocularsi.

Ci sono dunque problemi di disinformazione e di fiducia (nella medicina e nell’autorità) che vengono, tuttavia, trattati da politici e gran parte dei media alla stregua di «eccentricità», con un «battage» che ridicolizza i renitenti, contando sulla superiorità delle fonti autorevoli su quelle «farlocche». E anche se sostenute da voci rilevanti, le posizioni di chi si oppone alla via autoritaria finiscono in un calderone mediatico confuso, in cui ai critici si aggiungono populisti libertari e teorici del «grande reset», auspicando il richiamo alla voce del popolo (ma le vie referendarie sono spesso scivolose).

Poco sappiamo, invece, di cosa si agita nei sotterranei della disinformazione e delle «fonti alternative», di chi vi si rivolge e perché. I nostri inutili istituti di ricerca sociale non ci sanno dire nulla. Negli Stati Uniti, sono le fasce sociali con bassi livelli di scolarità, marginali, che vivono in un «mondo» dell’informazione totalmente separato, nel quale circolano notizie, opinioni e «fatti» che generano convinzioni che, a coloro che non vi appartengono, appaiono finanche grottesche (come i «no mask», ad esempio).

Il problema, se vogliamo, è cosa fare di chi la pensa in modo diverso al punto di «negare la realtà», talvolta. Dei «terrapiattisti» ci facciamo sberleffi, ed è facile. Ma quando, si dice, la negazione della cosiddetta «evidenza» mette a repentaglio la sicurezza collettiva non basta. L’evidenza scientifica seria, peraltro, è sempre tutt’altro che uniforme e il tema del consenso scientifico è complesso. Tuttavia, ciò che si dimentica è che la facilità di venire catturati dal «deep web» della mala informazione, è inversamente proporzionale alla scolarizzazione, all’acculturamento e alla positiva funzione del capitale sociale e dello spirito di comunità. Dove questi sono deboli o venuti meno, gli individui sono lasciati soli ad affrontare le loro paure e incertezze.

Per l’Italia degli anni Cinquanta, analfabeta, ancora profondamente rurale e tradizionale nella cultura diffusa, introdurre il vaccino antipolio o quello delle malattie pediatriche fu relativamente facile, non tanto perché vi fosse consapevolezza, quanto perché la fiducia nello Stato e nell’autorità, nella scienza e nella cultura «alta» era quasi totale, indiscussa.

Oggi, in Italia (dati Istat), più della metà della popolazione ha un livello d’istruzione minimo (la terza media, al più). Secondo un’indagine Ocse, poi, quasi un terzo è analfabeta «di ritorno» (adulti che non leggono o scrivono mai), prono a recepire in toto quanto circola nei circuiti che frequenta (e quella condizione va di pari passo con una status socio-economico «basso»). Se a ciò aggiungiamo che solo il 38% degli italiani ha fiducia nel governo (dati Eurobarometro), capiamo quanto vasta possa essere l’area delle persone «lontane» dallo Stato e dalla politica, che non si lasceranno convincere facilmente perché escluse, incolte, prive di strumenti critici e già, forse, parte di «altri mondi» (a questi andrebbe aggiunta quella piccola minoranza dei critici della «medicina ufficiale», che meriterebbe un discorso a parte). Un tempo, si diceva, la bassa scolarità favoriva la superstizione. Oggi, la sotto-cultura delle masse, nutrita dall’ignoranza e dai media, contribuisce ad alimentare il vasto mondo delle fake news.

Possono questi essere convinti con l’obbligo? Vi è una cesura «culturale» che il governo vuole paternalisticamente trascurare, ma loro non si fidano, da tempo ormai. È l’Italia sotterranea, marginale, che si nutre di fedi improbabili, miti grotteschi, del rifiuto sedimentale e marcio del consumismo. Che è anche la parte più fragile della nostra società perché esclusa, sotto-proletaria e delle periferie. Stupisce che a spingere in questa direzione siano i partiti di sinistra al governo, che dovrebbero essere i più attenti alle fasce deboli. Ma essi, forse, hanno già deciso da tempo di «lasciarle al loro destino», visto che i loro elettori, sempre più, sono il più vasto ceto medio scolarizzato degli «inclusi». Gli esclusi, la nostra sinistra, li ha persi di vista da tempo.