La mostra alla Triennale Vico Magistretti Architetto milanese (fino al 12 settembre), slittata di un anno a causa della pandemia, racconta, in occasione del centenario della nascita, una delle figure meno indagate dell’architettura e del design italiano.
Prima della sua scomparsa, avvenuta nel 2006, solo due esposizioni avevano descritto l’avventura progettuale di Magistretti: nel 1997 a Milano durante il Salone del Mobile e nel 2003 a Genova, a Palazzo Ducale, per iniziativa della Fondazione Schiffini. Non a caso i due eventi furono promossi da enti legati al settore del mobile, perché dalla metà degli anni sessanta almeno – come indica in catalogo (Electa) il curatore della mostra Gabriele Neri – Magistretti guadagna con più forza «l’appellativo di designer», mentre va progressivamente riducendosi quello di architetto.
Molteplici le ragioni di questa deviazione: da un lato i cambiamenti culturali della committenza borghese e dall’altro l’ingerenza della politica negli affari della città (gli anni di tangentopoli non si faranno troppo attendere). Un ruolo, tuttavia, l’ha anche avuto il mondo accademico con le sue ramificazioni nell’«industria culturale»: lui volle distanziarsene, preferendo insegnare, dalla fine degli anni settanta e per un ventennio, al londinese Royal College of Arts.
Riconsegnarlo alla sua dimensione di architetto è stato ora un atto onesto e necessario, compiuto con saggia consapevolezza critica, com’è evidente dai progetti selezionati per la mostra. L’allestimento di Lorenzo Bini (Binocle) rappresenta alla perfezione questo tentativo di ricomposizione. Purtroppo però «riduce, semplifica, e cristallizza le infinite traiettorie»: non solo perché costretto a illustrare in un’unica sala, poco più grande di trecento metri quadrati, una carriera professionale lunga sessant’anni, ma anche perché nelle intenzioni di coloro che l’hanno concepita, la mostra è stata intesa «come un punto di partenza, non come un punto di arrivo» (Neri).
Si può osservare che è insolito che si debbano attendere «prossimi anniversari» per una ricognizione esaustiva, in altre parole dotata di più dettagliate indagini sull’opera di Magistretti, e ci si domanda allora cosa abbia impedito di farlo ora. Anche in questo caso la responsabilità è del virus?
Eppure nello studio di via Conservatorio, già un anno dopo la morte dell’architetto, l’archivio sottoposto al vincolo di tutela s’iniziò a catalogarlo grazie alla volontà degli eredi, in particolare della figlia Susanna. Possiamo immaginare quale sia stata l’impresa di ordinare circa quarantamila oggetti e istituire la «Fondazione studio museo Vico Magistretti»: ma a distanza di quattordici anni, con l’archivio giunto a un buon punto della sua digitalizzazione, ci si aspettava che la Triennale offrisse di più.
Non siamo degli highlander, quindi, siamo felici di incontrare con rinnovato piacere i suoi oggetti creati per i principali brand del Made-in-Italy (Cassina, Kartell, Artemide, DePadova) e che si presentano un po’ appoggiati sul grande tavolo-superficie, ma per lo più disposti in alto sul lungo scaffale-parete che corre sui tre lati della sala a rimarcare la «cultura» di designer di Magistretti. Nel seguire, però, il percorso espositivo, prima di incrociarli con lo sguardo siamo attratti dagli schizzi progettuali che si mischiano con quelli delle architetture sotto il vetro delle teche.
Proviamo così a comprendere attraverso il disegno il processo che ha dato origine alle loro forme, ma anche agli spazi dell’abitare, perché questi sono l’espressione del nuovo lessico che doveva schiudergli la via a partire da quello, ormai logoro, ereditato dai maestri del Movimento moderno. Inoltre, è dall’architettura che si giunge al suo interesse per l’industrial design, che, infatti, origina dalla standardizzazione edilizia che lui inizia a sperimentare nel 1946 (mostra RIMA, Riunione Italiana Mostre Arredamento) e nel 1947 (Sezione dell’Industrializzazione all’VIII Triennale).
Quando sul finire degli anni della Ricostruzione e nel pieno di quelli del miracolo economico, Magistretti, come altri della sua generazione, si orientò nell’individuare nuove figurazioni, forse fu tra i primi ad accorgersi dello «spreco linguistico» di quella ricerca architettonica per nulla influente nella realtà urbana milanese che andava sempre più terziarizzandosi nelle aree centrali.
Di questa dissipazione di energie però, se confrontata con l’oggi, c’è da ammirare comunque la generosità del tentativo. Prendiamo ad esempio le sue «case alte», dalla Torre al Parco Sempione (1953-’56) alle Case MBM al Gallaratese (1963-’71): sono architetture che sottendono una concezione dell’abitare per tutti che l’odierno Modello Milano ha umiliato nella sua totale indifferenza ai più elementari valori di equità sociale e di cura dello spazio pubblico. Magistretti seppe al contrario interpretare quei «valori di civiltà, di forma, di comportamento» che sapeva fragili nella società dei consumi e che comportò per lui, come ha scritto Marco Romanelli in catalogo, una «resistenza: silenziosa, coriacea, duratura».
La sua metodologia progettuale, formatasi nelle file del Razionalismo dei Rogers e dei Bottoni, ma che per via paterna (il padre Pier Giulio fu un valente architetto tra le due guerre) giunge alla stagione novecentesca dei Muzio e dei De Finetti, si misurò con temi e contesti eterogenei fornendo ogni volta prove di assoluta qualità. Rimarcò convinto la validità della lezione della modernità tra le preesistenze storiche del centro urbano (Casa San Marco, 1969-’71; Casa in Corso di Porta Romana, 1962-’67), nelle aree di espansione della periferia (Chiesa di Santa Maria Nascente al quartiere QT8) e nel paesaggio naturale (Case Rosse a Framura, sulla costa ligure di Levante, 1961-’71).
Un capitolo da non trascurare, infine, riguarda i rapporti tra Magistretti e la Triennale. Nel 1957, insieme ad altri, la contestò. Quando ritornò di nuovo a collaborare si proponeva di «combattere il qualunquismo dell’opinione pubblica nei confronti di una Triennale che si trastulla a perfezionare i soliti temi»: un’intenzione che conserva anche questa la sua buona dose di attualità.