Trieste è una città fatta di vento. Vento forte che sconquassa ombrelli, scompiglia capelli e abiti, incolla ai muri, costringe quasi a inginocchiarsi per trovare tregua. Vento che può farsi messaggero delle voci e della storia di nazioni separate da sottili linee di confine. Vento che, allora, porta dolore, costringe a esodi senza ritorno, sconvolge l’idea di patria e la rovescia, accompagna migrazioni aggrappate con tenacia all’idea per quanto esile di un ritorno o di un altro futuro. Fu quel vento, reso più forte dal potere di un uomo, il maresciallo Josip Broz Tito, a spingere via, a Trieste, con violenza, 250mila italiani considerati ostili all’annessione di Fiume, della Dalmazia, dell’Istria da parte della Jugoslavia comunista. L’approdo dei giuliano – dalmati, iniziato nel 1943, ebbe il suo culmine dopo il trattato di pace siglato a Parigi il 10 febbraio del 1947, che assegnava alla Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia parte dei territori prima appartenenti al Friuli Venezia Giulia. A precederlo furono anni di terrore, di processi sommari, di atrocità culminate negli stermini delle foibe. Quel popolo in fuga arrivò portando con sé quintali di masserizie: sedie, tavoli, credenze, cassepanche, letti, poltrone da barbiere, comodini, stoviglie, insegne di negozi, stufe, macchine per cucire, biancheria e corredi, pianoforti, biciclette, migliaia di fotografie, persino bare con dentro i defunti estirpati dai cimiteri. Quel popolo in fuga finì nei campi profughi, nell’attesa vana di capire quale sarebbe stato il suo destino. Le masserizie vennero stipate all’interno del porto di Trieste, punto franco, Magazzino 18. E lì, per gran parte, ancora giacciono. Fantasmi di legno e vetro, ceramica e ferro, stoffe e carta, che raccontano di un esodo in cui si mischiarono classi sociali, povertà e ricchezza, uomini e donne, adolescenti e bambini. Qualcuno, nel corso del tempo, è tornato a riprendersi qualcosa. Ma in quasi ottantamila hanno lasciato tutto lì per continuare la loro migrazione verso le Americhe, o per andare a Roma, dove un quartiere porta il nome di Villaggio Giuliano Dalmata. Il Magazzino 18 è chiuso, accedervi è pressoché impossibile, divieto dettato da norme di sicurezza e di igiene. Ciò che contiene, dopo l’ultimo appello della Prefettura di Trieste nel 1978, andato a vuoto, è divenuto ‘res nullius’, roba inutile, e donato all’Icri, l’Istituto regionale per la cultura istriano – fiumano – dalmata. Un suo campionario significativo ha trovato spazio nel museo dell’Irci, in via Torino 8.

Anche Simone Cristicchi, quando nell’ottobre del 2011 arriva al Magazzino 18, trova la porta chiusa. Ma lui, il ragazzo occhiali e riccioli in piedi su una sedia e sul palco di Sanremo per dedicare ai matti Ti regalerò una rosa, spirito musicale del Coro dei Minatori di Santa Fiora, unico attore nello spettacolo Li romani in Russia, la porta riesce a farsela aprire. «Dopo Li romani in Russia, avevo continuato a lavorare alla memoria della Seconda Guerra Mondiale per un libro, Mio nonno è morto in guerra, poi trasformato in un allestimento teatrale. Nel raccogliere alcune testimonianze a Trieste, sentii parlare del Magazzino 18. Non ne sapevo nulla, chiesi di poterlo visitare. Subito oltre l’ingresso, mi sono trovato davanti a quella enorme catasta di oggetti. E al mio silenzio. Il silenzio di una persona ignara della portata di una tragedia che tutte le cose ammassate rappresentavano, costruendo un museo ‘suo malgrado’, un’installazione d’arte contemporanea non voluta, una Ellis Island italiana. E soprattutto la memoria di un’intera città chiamata Pola». Male accolti in Italia, chiamati con spregio zingari, quelle decine di migliaia di esseri umani coltivavano il sogno di poter un giorno tornare a casa; cercavano forza nell’illusione che il trattato di Parigi venisse un giorno ridiscusso «Tutto questo appare evidente in un particolare: ogni oggetto porta il nome del suo proprietario, la data e il luogo di provenienza, scritti a mano con un gessetto o con la vernice di un pennello. Ogni oggetto smette così di essere semplicemente tale, e acquista una sua voce. L’Irci mi ha regalato una sedia che apparteneva a Ferdinando Biasiol. È diventata il mio portafortuna, l’unico pezzo originale che porto in scena durante lo spettacolo». Lo spettacolo, appunto. Intitolato Magazzino 18, vede di nuovo Cristicchi unico attore. Sue sono le musiche, mentre il copione è stato scritto a quattro mani con Jan Bernas e la collaborazione di Matteo Pelliti. La regia è di Antonio Calenda

«Quando uscii dal magazzino, Piero Delbello, il direttore del museo dell’Irci, che mi aveva accompagnato, se ne uscì dicendo ‘Ma perché non ti inventi qualcosa per raccontare la storia della nostra gente?’. Gli risposi che avrei potuto scrivere una canzone, come poi avvenne (Magazzino 18, ndr). Ma aggiunsi che forse quel posto meritava di diventare uno spettacolo teatrale. Secondo Delbello era una buona idea. Io, in quanto ‘foresto’, non avrei subito condizionamenti e sarei rimasto fuori dai contrasti sulla vicenda, ancora vivi a Trieste». Simone e Bernas si inventano la figura dell’archivista romano Persichetti, mandato nel Magazzino 18 dal Ministero degli Interni per redigere l’inventario. Cristicchi lo definisce un tipo sordiano, un italiano medio completamente  all’oscuro di quel dramma. Per lui, Giuliano e Dalmata sono un nome e un cognome. L’altro protagonista è lo Spirito delle Masserizie, il fantasma del Magazzino e il narratore delle parti storiche, ingressi a una galleria di personaggi, anche loro fantasmi «Cambiando mimica, abiti e voce, porto in scena l’esule da Pola e Domenico l’infoibato; la bambina che ricostruisce la strage di Vergarolla, una delle tragedie che portarono all’esodo di massa; l’esule diventato matto, come successe ai tanti che non riuscirono a resistere al dolore dello sradicamento e finirono in manicomio; il prigioniero del gulag di Goli Otok e il ragazzino del campo profughi; i rimasti, cioè gli italiani che fecero la scelta opposta: restare per varie ragioni, tra cui ebbe un posto di primo piano la fede politica. Sono circa quarantamila e vivono ancora lì». Figura importante, altra faccia e altro episodio della vicenda, è il cantierino monfalconese. Al termine della guerra, duemila operai di Monfalcone iscritti alla federazione triestina del PCI decisero di espatriare in Jugoslavia. Nel 1948 Tito fu accusato da Stalin di deviazionismo, e poiché il PCI di Trieste aveva firmato la risoluzione del Cominform contro il leader iugoslavo, moltissimi tra gli operai si trovarono rinchiusi a Goli Otok. Tornati in patria dopo un periodo di dura prigionia, il partito chiese loro di riconsegnare la tessera di iscrizione. Viene da chiedere, a questo punto, quale sia il finale. Cristicchi, sorridendo, preferisce non svelare tutte le carte «Qualcosa cambia in Persichetti, nel corso del suo viaggio tra le masserizie e man mano che ne scopre la storia. Questo cambiamento si esprime attraverso una lettera in risposta a una donna che chiede di poter riavere i suoi oggetti, nonostante siano passati settant’anni». Tra le canzoni di uno spettacolo definito da Simone ‘Musical – Civile’, c’è Magazzino 18, tre minuti per un addio senza possibilità di ritorno. Una strofa recita «Sono venuto a cercare mio padre/in una specie di cimitero/tra masserizie abbandonate/
e mille facce in bianco e nero/Tracce di gente spazzata via/da un uragano del destino/quel che rimane di un esodo/ora riposa in questo magazzino».

 

BOX MUSEO

Il Civico Museo della Civiltà istriana fiumana e dalmata, ospitato all’interno del palazzo in via Torino 8, sede dell’Irci, si sviluppa su circa 2300 metri quadri. Dal Magazzino 18 sono stati selezionati numerosi oggetti, tramite i quali viene ricostruita la storia dell’esodo. Accanto agli oggetti, presenza altrettanto significativa viene dalle fotografie dell’epoca e da documenti per la maggior parte inediti. L’allestimento definitivo del museo dovrebbe vedere la luce nel 2104. Visite su richiesta chiamando lo 040/ 639188. Info sul sito irci.it (lds)