Una decisione difficile che la seconda sezione della corte d’assise di Palermo ha preso cercando ogni appiglio nel codice di procedura penale, nella Costituzione, nelle sentenze della Consulta e persino nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, la parte civile che rappresenta i familiari delle vittime di via dei Georgofili e il coimputato nel processo per la presunta trattativa tra lo stato e la mafia Nicola Mancino non potranno intervenire di persona al Quirinale, quando il prossimo 28 ottobre Giorgio Napolitano sarà ascoltato dai pm siciliani.
I magistrati dell’antimafia sentiranno Napolitano a proposito della lettera che il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio (deceduto nel frattempo) gli scrisse confessando il timore di essere stato, negli anni in cui era collaboratore di Giovanni Falcone, «ingenuo e utile scriba» per «indicibili accordi». La testimonianza di Napolitano, che ripete da tempo di non avere nulla da aggiungere, è stata ammessa dalla corte, che però ieri ha voluto circoscrivere l’happening al Quirinale. Non ci saranno i mafiosi imputati e nemmeno l’ex ministro dell’interno che, secondo l’accusa, cercò di far intervenire il Quirinale per fermare la procura di Palermo.

L’ordinanza con la quale sono state respinte le richieste degli imputati, che erano appoggiate della procura, è stata letta ieri in aula dal presidente della corte Montalto. L’assise parte dall’articolo del codice di procedura (205) che riconosce il diritto di Napolitano di essere ascoltato «nella sede in cui esercita le funzioni di capo dello stato». Aggiunge poi che le modalità di questa deposizione straordinaria, per la quale non ci sono precedenti, possono essere desunte per analogia da un successivo articolo del codice di rito (502) che prevede l’ascolto del testimone che non può recarsi in tribunale «nel luogo in cui si trova». Il problema è che il secondo comma di questo articolo è assai tassativo quando dispone che, in caso di deposizione a domicilio, «Il giudice, quando ne è fatta richiesta, ammette l’intervento personale dell’imputato interessato all’esame». Per superare questa regola che sembrerebbe riconoscere il diritto di Riina e degli altri a intervenire al Colle il prossimo 28 ottobre, la corte ricorre a una serie di argomenti come «la peculiarità del luogo» Quirinale, che gode della cosiddetta «immunità della sede» (a imitazione del parlamento), l’inviolabilità del domicilio. I giudici fanno appello anche agli «interessi supremi» dell’«ordine pubblico» e della «sicurezza nazionale». L’argomento più forte, però, pare essere un altro, un ostacolo solo tecnico: Riina e Bagarella sono detenuti in regime di 416 bis, dunque possono intervenire al processo esclusivamente collegati in videoconferenza. E la videoconferenza è espressamente prevista dal codice di procedura solo per le aule di udienza in tribunale.

Quest’ultimo argomento, però, non può applicarsi all’ex ministro Mancino (che è libero). Da qui il rischio che la decisione di ieri, mentre fa tirare un sospiro di sollievo a praticamente tutti i partiti, escluso il Movimento 5 Stelle, possa alla fine rivelarsi un vizio capace di far crollare tutto il processo. A partire dal secondo grado di giudizio. La difesa di Mancino ne è certa: «Per noi l’ordinanza è nulla». L’avvocato di Riina preannuncia che chiederà l’annullamento. E aggiunge che «la corte fa capire che non si potranno neppure fare domande».

In realtà è vero il contrario. Nell’ordinanza i giudici scrivono che «il diritto alla difesa degli imputati è comunque adeguatamente assicurato dall’assistenza tecnica e dal diritto di fare domande dei difensori». Basterà, visto che il codice prevede il diritto dell’imputato a presenziare alle udienze proprio per potersi consultare «in diretta» con il legale che lo assiste? Nel frattempo fa notizia il tweet di Sabina Guzzanti – al cinema in questi giorni c’è il suo film La Trattativa – che si sente di esprimere «solidarietà a Riina e Bagarella privati di un loro diritto. I traditori nelle istituzioni ci fanno più schifo dei mafiosi». Valanga di indignazione dal parlamento ai sindacati di polizia. Ma nel frattempo c’è chi riesce a fare di più: per il deputato grillino Sibilia la decisione dei giudici di Palermo serve a «impedire agli scagnozzi Riina e Bagarella di vedere il boss». Dove il boss sarebbe il presidente della Repubblica.