In direzione del confine birmano, dove la città thailandese di Mae Sot si separa da Myawaddy, il traffico scorre veloce e senza intoppi. Chi proviene da qualunque direzione all’interno della Thailandia può però vedere sull’altro lato della superstrada a 6 corsie lunghe file per i controlli di polizia negli abitacoli di auto e bus in cerca di eventuali migranti dal Myanmar senza documenti. Dicono che serve molta fortuna per passare, se non si è pagata la gang di contrabbandieri giusta fin dall’arrivo notturno sul confine d’acqua.

ALMENO 300MILA UOMINI, donne e bambini, dissidenti e lavoratori migranti dal giorno del golpe militare hanno attraversato a nuoto e al buio il torbido e stretto fiume Moei che separa i due paesi. Pneumatici e una corda a tenerli uniti, per oltre 500 notti hanno seguito il percorso dei loro genitori e nonni, o quello della locale etnia di maggioranza dei Karen che dal lontano 1949 ondeggia avanti e indietro ogni volta che si spara attorno o contro i suoi villaggi. Dal 1 febbraio 2021 avviene praticamente ogni giorno.

 

Mae Sot, i soldati thailandesi controllano un gruppo di profughi birmani in fuga dagli scontri (foto Ap)

 

A Tak – ben collegata a Bangkok e al resto del regno – inizia la nuova Asia Superhighway nr 1, primo tratto della futura Silk Road cinese che si tronca proprio a ridosso di Mae Sot nell’attesa del finale di un sogno dello chairman Xi Jinping, la Belt and Road o cintura auto-nave-ferrovia. Al di là del Moei, in un’area vasta come Mae Sot, si sono già installati nonostante la guerra investitori cinesi con pochi scrupoli che durante il Covid hanno edificato enormi e impenetrabili cittadelle in cemento bianco, avamposti di un futuro inquietante dove lo schiavismo può essere la regola e l’impunità garantita da stati sovrani. Il Myanmar certo chiude entrambi gli occhi, ma analoghe massicce strutture segrete sono state scoperte in Cambogia, in Laos, nello stato birmano degli Shan e altrove in Myanmar. Alcune ricadono in apposite Zone economiche speciali finanziate da Pechino che nega però ogni connessione con speculatori privati.

I BOSS DELLE NUOVE MACAO del sudest hanno fama di trafficanti umani e nel presunto lager più grande di tutti, Shwe Ko Ko, vivrebbero prigionieri sotto minaccia migliaia di giovani non solo birmani ma anche filippini e di altre etnie, assoldati con promesse di buone paghe e poi utilizzati come “avatar” per giochi d’azzardo e truffe online. Appena 170 km più avanti c’è il porto di Moulmein che nei progetti di Xi sarà l’ennesimo sbocco mercantile della Cina sull’Oceano Indiano una volta cessati i combattimenti. Nel frattempo il Ponte dell’Amicizia nr 1 per via degli scontri non riapre dai tempi del Covid e solo sul Ponte nr 2 lunghe file di autotreni birmani aspettano i controlli per andare ad approvvigionarsi di beni introvabili in Myanmar.

DEL PEDAGGIO SULLE MERCI nelle due direzioni approfittano tutti, sia i vari bracci armati o brigate del partito autonomista dei Karen KNU, storicamente anti-birmano, che i Karen buddhisti filo-giunta del DKBA e dello speciale corpo di frontiera BGF, sotto il cui controllo ricadono anche le città cinesi con i loro turpi segreti. Un testimone birmano che vive clandestinamente a Mae Sot ci ha raccontato di essere riuscito a fuggire dopo 4 giorni con l’aiuto di un amico della Croce rossa e di aver udito in quelle notti grida e cani feroci a guardia delle strade.

A prova dell’inquietante scenario definito dall’Istituto di studi sulla pace Usip «una crescente minaccia alla sicurezza globale», diverse bombe sono esplose anche di recente sul lato birmano del ponte dell’Amicizia. Nel solo novembre scorso il KNU ha segnalato circa 7.227 scontri (contro i 6.497 di ottobre) e 6.187 uccisioni di tadmadaw – i soldati Bamar-birmani – nel suo territorio che comprende parte degli stati Karen e Mon. È una vera guerra ma ne parlano solo i media locali alimentati da giornalisti esuli, oltre 200, coordinati e sostenuti in parte da esperti come Phil Thornton della Federazione internazionale di categoria o IFJ, che da decenni assieme a sua moglie infermiera gestisce anche una delle più efficienti cliniche mobili nella giungla, spesso sotto i bombardamenti.

Dal golpe in poi molti ex studenti delle rivolte cittadine si sono addestrati in queste foreste con le brigate guerrigliere Karen per poi entrare a far parte delle Forze locali di Difesa popolari o PDF, che pur essendo armate sono riconosciute dal governo ombra in esilio di cui è presidente onorario la Nobel della pace Aung San Suu Kyi. Un tempo paladina della non violenza, sembra che la ex leader agli arresti si sia ricreduta: secondo Sean Turnell, il suo ex consigliere economico appena liberato di prigione, la Lady ha detto di essere «orgogliosa» di come i suoi giovani si stanno ribellando ai dittatori che la tengono prigioniera.

I KAREN, IN GRAN PARTE CRISTIANI e cattolici in guerra da 70 anni, sperano che queste giovani generazioni di Bamar (l’etnia birmana di maggioranza buddhista) stavolta non si dimentichino – come fece in passato anche Suu Kyi – del contributo delle minoranze alla causa comune del federalismo e della lotta ai generali. Sognano, dentro un’Unione multietnica, la loro Kawthoolei, la mitica patria dei Karen e fin dall’inizio degli scontri armati Mae Sot si è trasformata nel grande purgatorio degli esuli che è. Lungo il confine sono sorti campi d’accoglienza che hanno ospitato e visto nascere miseramente intere generazioni con punte di 300mila anime. Oggi in 9 strutture come Mae La vivono ancora in 100mila, senza poter uscire o lavorare, controllati dalla polizia thai e dalle UN che offrono una paghetta mensile di 300 baht, meno di dieci euro.

 

Profughi sugli argini del fiume Moei, al confine tra Myanmar e Thailandia (foto Ap)

 

Nel centro della città, dentro i giardini di un anonimo tempio thai, incontriamo un monaco che fu pioniere della resistenza al regime birmano, Ashin Karita, nome de guerre da quando nel 2007 con la Rivoluzione color zafferano sfidò i generali ribaltando davanti a soldati e famiglie dei militari le ciotole delle offerte che sostentano il clero. Dopo gli anni da fuggiasco in Thailandia, tornò in Myanmar con l’avvento al governo di Daw Suu Kyi, aprendo diverse scuole d’inglese e religione per monachelli e bambini della sua regione. Ma il giorno stesso del golpe le scuole vennero perquisite, gli insegnanti arrestati e Ashin scelse di scappare nuovamente a Mae Sot per chiedere il visto di almeno una decina di paesi. Solo l’Australia ha risposto di sì ma da gennaio zero comunicazioni. «L’abate thai del monastero che mi accoglie chiede spesso quando parto, ma un po’ è contento così perché dò in cambio manovalanza gratuita».

«È UNA BRAVA PERSONA – spiega Karita – ma incarna un po’ lo spirito dei thailandesi nei riguardi di noi esuli birmani. Se fuori da queste mura del tempio i datori di lavoro sfruttano i nostri contadini e operai con paghe e orari da schiavi (ultimo il caso della denuncia contro la inglese Tesco che produce i jeans F+F, ndr), qui dentro si dà in un certo senso per scontato che i lavori più faticosi del monastero come spaccare pietre e alzare muri spettano a noi monaci birmani. In ogni caso posso reputarmi fortunato, anche se m’imbarazzano gli sguardi dei thai alla mia pronuncia delle preghiere Pali».

Ashin attende il visto sempre più scettico e intanto mantiene viva sui social del Pdf e tra i suoi discepoli la fiamma di una rivoluzione sempre meno pacifica ma – per lui e i suoi compagni – in linea coi principi buddhisti di giustizia e felicità. Su questi presupposti di coscienza un numero alto di tadmadaw, spesso con moglie e figli (sarebbero 10mila) ha deciso di abbandonare l’esercito e qualcuno già combatte nelle “aree libere” tra le file dei vecchi nemici per uccidere ex commilitoni. È il risultato anche di promesse – con il cambio di casacca – di assistenza alle famiglie, ma la gran parte alloggia in tende proprio a ridosso della frontiera, isolate dal resto del mondo.

ALTRE MIGLIAIA DI EX ATTIVISTI della disobbedienza civile vivono nascosti a Mae Sot in condizioni simili, i fortunati negli hotel sovraffollati requisiti dalla Org dei migranti IOM, gli altri dove capita. Le loro richieste di visto all’estero vengono sistematicamente rifiutate o accatastate inevase perché – nota Ashin – «con la guerra in Ucraina gli esuli del Myanmar non muovono a compassione più nessuno». Il monaco stesso negli ultimi mesi ha scritto almeno 20mila accalorate e inutili lettere d’asilo per conto dei nuovi arrivati.

Dall’inizio del Covid, oltre a chiudere il Ponte dell’amicizia, è stata svuotata a Mae Sot anche la sede dell’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR) e a Bangkok nessuno risponde ai telefoni, proprio quando ce n’era più bisogno che mai. Senza identità e soldi non resta che affidarsi alla rete nemmeno troppo sotterranea di organizzazioni degli esuli come quella citata di recente dal Washington Post che ha raccontato il purgatorio di Mae Sot visto dai tavoli di bambù del Freedom Caffè. È una riservata sala da tè e ristorante birmano dove al mattino si servono pasti caldi e zuppe di mohenga agli esuli affamati e al pomeriggio si parla di arte e politica. Un intellettuale di nome Thet Swe Win, fuggito da Yangon, ha messo i primi soldi per ricreare un angolo di ritrovo della sua città con l’aggiunta di un Che Guevara su un’intera parete e assunto come camerieri gli ex studenti ribelli. Vicino c’è l’ufficio di Sinergy, l’organizzazione «dell’armonia sociale» con la quale cerca tra l’altro di aiutare quanti più amici dissidenti possibile evitandone la deportazione a colpi di mazzette. «Siamo una specie di Atm in baht e kyatt (le monete locali, ndr)», ci confida sarcastico Thet.

NELL’ANONIMATO delle vie squadrate e austere di Mae Sot gli esuli illegali sono inconfondibili dalla maggioranza dei birmani residenti da anni. I controlli a caso sconsigliano molti di uscire dalle loro stanzette, ma in un certo senso le forze dell’ordine gli vengono incontro fornendo loro per 8 dollari al mese una sorta di carta d’immunità senza foto né nome ma un numero in codice col quale il loro “agente” autorizzerà il rilascio. Del resto al regno serve forza lavoro nella fase di ripresa post Covid e per i birmani l’alternativa allo sfruttamento è pressoché zero. Peggio sarebbe cadere in mano alle gang di trafficanti che operano tra la popolosissima comunità islamica di Mae Sot. O nella rete delle mafie cinesi come quelle che gestiscono il complesso lager di Shwe Ko Ko.