È particolarmente difficile la sfida che si pone Margherita Giacobino nel suo ultimo romanzo Il tuo sguardo su di me, edito da Mondadori (pp. 204, euro 18): raccontare di sua madre, senza che nella loro storia esistano conflitti o complicazioni. Il «tu» a cui l’autrice si rivolge nel corso di tutto il romanzo, che rispondeva al nome di Maria Grazia, è una donna che invece di rovinarle la vita, gliela ha salvata, amandola senza esitazioni, stimando la bambina che era, la donna che sua figlia è diventata.

LA MOLLA, L’ISPIRAZIONE da cui scaturisce il testo è proprio questo amore corrisposto, fra Margherita e sua madre: «tu e io eravamo una minoranza linguistica non riconosciuta, un popolo intero di parlanti. Perciò in ogni cosa che penso e che dico ci sei anche tu, c’è l’eco della tua voce e la risonanza del tuo ascolto».
Nel racconto di questa relazione di affetto indefinibile, se non ricorrendo alle immagini scelte da Giacobino che ne parla come di «un continente», non ritroviamo l’analisi dei sentimenti però.

Non ci sono pagine di riflessione sul rapporto col materno, né sulla relazione con la madre intesa in senso astratto, archetipico, che pure è una materia interessante. È un romanzo e come tale racconta una storia: azioni e personaggi. Personagge a dire il vero, perché la vita di Maria Grazia e di sua figlia Margherita si è svolta con le donne. Le magne, soprattutto, come il dialetto piemontese con estrema saggezza chiama le zie. Sono loro che hanno cresciuto Maria Grazia quando lei è tornata bambina dagli Stati Uniti con sua madre troppo malata per occuparsene. Margherita stessa porta il nome di un’altra zia che ha avuto il merito di affidare a sua madre un negozio di alimentari, che «la capitana della nave» ha saputo gestire e far fruttare.

Da sola, con un’altra zia Ninin, a casa che si occupava della sua bambina e di prepararle i pasti, Maria Grazia è riuscita a portare avanti il commercio e a ripagare i debiti che suo marito, da lei ripudiato almeno per un po’, aveva contratto col gioco.

UN «ROMANZO FAMILIARE», come Giacobino con un certo fastidio lo definisce, quasi faticasse lei stessa ad accettare di aver scritto un’opera che appartiene al genere, è più che mai un testo costruito sullo scorrere del tempo. Per raccontare di sé e della propria infanzia, del proprio passato come di quello dei genitori, è necessario aspettare, avere alle spalle molti anni, ricordi, tantissima nostalgia, nel senso etimologico della parola, quello di Omero, del dolore del tempo.

Ritroviamo allora qui Margherita bambina e poi liceale, universitaria, ribelle, subito indipendente con una casa da sola, le sue relazioni. E nel frattempo Maria Grazia vende il negozio, fa l’ambulante col suo furgoncino, smette di lavorare, riaccoglie suo marito e si innamora di un altro uomo. È la vita che attraversa le pagine di Giacobino ma lo fa con estrema lievità, come se poco importasse, ed è così. Qui non contano i traguardi, gli obbiettivi raggiunti, le scelte, il lavoro, i traslochi, gli amori: nel romanzo c’è solo «tu». E i gatti.

ESISTE INFATTI UN’UNIONE impossibile che i romanzi familiari possono raccontare, quella tra la quotidianità e l’universale. Non ci sono vicende mirabolanti nel romanzo di Giacobino e deliberatamente lei decide di non concedere troppa importanza ai fatti che avrebbero avuto maggior risalto – le sue questioni sentimentali, per esempio – è la storia con sua madre che conta.
E non perché le due andassero d’accordo: sono importanti anche le madri per cui si prova disprezzo. A giganteggiare è l’importanza del punto di partenza, la scena primaria come si dice, perché in essa sono contenuti l’approccio alla vita e l’inconsolabilità della morte.