In una parola La rubrica settimanale di Alberto Leiss

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 17 marzo 2015

Ci vuole un bel coraggio per affrontare una parola impegnativa come questa! Seguo quindi un percorso laterale, offertomi da un’amica che mi ha segnalato un articolo uscito sul Venerdì di Repubblica del 6 marzo. Ecco il titolo: «Per i violenti ultrà il Brasile ha un’idea: usare le (loro) madri». Mentre in Grecia Tsipras si è guadagnato quantomeno la mia simpatia bloccando il campionato di calcio per il ripetersi della violenza negli stadi, a Recife i dirigenti della squadra che gioca in una delle aree più turbolente del Brasile hanno pensato di risolvere il problema schierando in campo come steward , invece di energumeni e vigilantes, una trentina di madri di alcuni dei più noti e violenti tifosi.

La presenza di queste signore con pettorine in arancione squillante con la scritta «Seguranca Mae», traducibile più o meno con «madri per la sicurezza», sembra abbia raggiunto perfettamente il risultato. Nessuno scontro tra ultrà né prima, né durante, né dopo la partita. Le immagini della «madri per la sicurezza» sono state diffuse con generosità in tv, e a quanto pare sotto il vigile sguardo materno i giovani scalmanati si sono dati una regolata.

Attenzione, che qui si parla di cifre da guerra civile: negli ultimi anni ci sono stati più di 230 giovani uccisi negli scontri tra tifosi e con la polizia, una trentina solo nel 2013.

L’articolo parla di una carta «tanto creativa quanto disperata» riferendosi a quella giocata dai dirigenti del calcio brasiliano.

E in effetti la notizia può suscitare sentimenti contraddittori: è giusto tirare in ballo le mamme per i comportamenti sconsiderati dei loro figli? Se in questo caso l’autorità materna funziona in una dimensione pubblica nell’inibire la violenza, come mai non ha funzionato in quella privata e familiare per produrre un’educazione che quella stessa violenza eliminasse dai comportamenti possibili? Non è difficile immaginare una madre brasiliana alle prese con comportamenti maschili che la aggrediscono da molti lati: un marito povero e violento, figli adolescenti preda delle baby-gang del quartiere, una vita durissima per garantire un minimo di sopravvivenza ordinata alla famiglia.

In tali contesti un progetto educativo può fallire, anche se la mamma è «sufficientemente buona», come diceva Winnicott. Poi magari ci si mette di mezzo quel di più di amore materno per i figli maschi che non sempre produce il loro bene.

Del resto è sin troppo facile capovolgere sulle madri, ancor più che sui padri, per lo più beatamente assenti, le colpe degli errori dei figli. Massimo Recalcati si è prodotto recentemente in una brusca requisitoria psico-sociale antimaterna: le mamme del neoliberismo stanno passando dalla figura (lacaniana) della madre-coccodrillo, che divora la prole col suo amore possessivo e spaventevole, alla madre-narciso, preoccupata di piacere e del piacere, e immemore dei doveri verso i pargoli. Lea Melandri e Chiara Saraceno, tra le altre, si sono ribellate alle semplificazioni del noto psicologo ormai quasi prêt-à-porter.

Ma l’episodio brasiliano può suggerire altre riflessioni. In questo caso l’autorità materna forse funziona anche perché ha improvvisamente un alto riconoscimento pubblico. Dettato, peraltro, dalla tipica incapacità maschile di risolvere un problema del tutto maschilmente connotato. In secondo luogo i figli maschi – e non solo i giovani ultrà brasiliani – potrebbero trarne lo spunto per riflettere seriamente sulla relazione con la propria madre. Un passaggio necessario per crescere e divenire finalmente responsabili delle proprie azioni.

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