Piazza Grande è piena fino alle ultime file e le ottomila persone sedute nella sala cinematografica più grande e bella del mondo assistono alla cerimonia di apertura del Festival che quest’anno compie settant’anni. Sul palco, presentate dal direttore del Festival Carlo Chatrian, sfilano le tre giurie: quella del Concorso Internazionale presieduta da Olivier Assayas e di cui fa parte quel poeta del cinema che è Miguel Gomes, dei Cineasti del Presente guidata dall’egiziano Yoursry Nasrallah e con la cantautrice Paola Turci, dei Pardi di domani la cui presidente è Sabine Azéma, qui in gran spolvero con i capelli fiammanti e il sorriso radioso illuminati da un collier che ricorda i gioielli del tesoro di Atreo.

Il film di apertura è Demain et tous les autres jours diretto e interpretato da Noémie Lvosky, attrice, regista e sceneggiatrice francese che a Locarno aveva già vinto nel 1999 il Pardo d’argento con La vie ne me fait pas peur (protagonista Valeria Bruni Tedeschi) e, nel 2012, il Variety Piazza Grande con Camille redouble, dedicati come quest’ultimo alla madre Geneviève. È una dedica non casuale perché anche qui la figura centrale è quella di una madre amorosa ma assente, attenta alla crescita emotiva della figlia di nove anni Mathilde (la bravissima Luce Rodriguez), ma totalmente incapace di districarsi nella parte organizzativa della vita. Dimentica la ragione per cui si trova a colloquio con una delle insegnanti della figlia, preoccupate perché hanno notato che la bambina tende a isolarsi e a non socializzare con i compagni; compra un abito da sposa non perché abbia delle vere nozze in vista ma perché, dice alla commessa: «Io mi sposo con la vita»; la sera vaga per le strade di Parigi e dimentica di tornare a casa all’ora giusta per preparare la cena.

Il padre di Mathilde, interpretato da un intenso Mathieu Amalric, non vive con loro. Separatosi da anni continua però a seguire la figlia a distanza, dialoga con lei attraverso Skype, le parla con affettuosa vicinanza. A dover svolgere il ruolo dell’adulta, tenendo insieme una quotidianità resa traballante dalla dolce e fragile follia della madre, è Mathilde, ma ciò non sembra pesarle. Quello che più conta per la bambina è che la madre continui a guardarla, parlare e giocare con la sensibilità a cui l’ha abituata e di cui non può fare a meno.

Questa è una madre che sa fare sorprese, in tutti i sensi. La più stupefacente è quando un giorno torna a casa con un grande pacco avvolto in carta regalo. Mathilde scarta e… dentro c’è una gabbia di bambù che custodisce non un consueto canarino o pettirosso, ma una piccola civetta. Stupore, meraviglia e d’istinto Mathilde apre la gabbia. Una bambina che sa vivere con una madre un po’ matta non ha paura che quel piccolo uccello dallo sguardo acutissimo scappi, perché vuole osservarlo, stabilire con lei un contatto. La civetta svolazza per casa, Mathilde mette dei semi su un tavolo, sul palmo della mano e appena la civetta li mangia il loro rapporto diventa di totale fiducia, anzi osmosi.

Inizia così un dialogo vero fra la bambina e la civetta, la cui voce è di Denis Podalydès e che solo Mathilde può sentire. La civetta diventa compagna ma un po’ anche coscienza, confidente, veggente, come se fosse lì apposta per vigilare e suggerire a Mathilde le mosse giuste da fare. Quando la sera di Natale la madre, persa nei suoi pensieri e nelle sue assenze di memoria, si scorda di rientrare a casa e si perde al capolinea di un autobus, appena Mathilde riceve la telefonata con cui le comunicano che la madre arriverà alla stazione di Saint Lazare alle tre del mattino, lei che per tutta la sera ha preparato la tavola, il pranzo, l’albero, i regali e la festa ha un moto di ribellione profonda. Rompe piatti, butta i regali, il pollo arrosto e poi da fuoco alle tende. Sarà la civetta a dirle come spegnere il fuoco senza scottarsi, evitando di mandare a fuoco l’appartamento, e lo farà senza mai chiedere di aprire la gabbia, sicura di come andrà a finire o incurante del proprio destino, ormai indissolubilmente legato a quello della bambina.

Carlo Chatrian ha definito questo film una fiaba al contrario, un racconto pensato per tenere lontane le tenebre e lasciarsi andare alla notte che viene incontro aspettando con fiducia il domani. Noémie Lvosky, ringraziando sul palco, ha portato un’emozione palpitante che ha molto in comune con la svampitezza della protagonista e con sua madre di cui in altre occasioni ha detto: «Mia madre era un po’…altrove. Aveva una personalità poetica, era molto intelligente ma viveva come un’asceta ed era incapace di avere una vita sociale. Aveva un linguaggio suo che non era fatto per comunicare con gli altri. Io cercavo sempre di decodificarla. Mi faceva pensare a Marguerite Duras».