Secondo il dizionario etimologico online sull’origine della parola macello, e dei suoi derivati “bisogna ancora studiare”. Risalendo dal greco al sanscrito ci sarebbe un radice mac che significa il taglio, la lama. Mactare in latino vuol dire uccidere.
Ma il termine mactus viene anche accostato a magnus, evocando una grandezza che avvicina al sacro. E ogni sacri-ficio comporta una vittima. Ma macello potrebbe anche voler dire semplicemente uno spazio recintato. Però quello in cui gli animali vengono uccisi e sezionati per costituire cibo agli umani.

Visto e udito il ripetersi delle parole macellaio e macelleria per le immagini e i racconti saturi di orrore che giungono dall’Ucraina mi sono improvvisamente chiesto come mai – nel senso di ragioni meno ovvie delle prime che vengono in mente – siamo così pronti a vivere queste parole come i peggiori insulti, pieni di riprovazione morale per una radicale efferatezza, quando qualche volta alla settimana, in genere, ci rechiamo in macelleria, per acquistare la fettina, il lesso, l’arrosto.

Nella cittadina a pochi chilometri da Roma nella quale da qualche anno abito, tra l’altro, frequento uno di questi negozi gestito da un’intera famiglia – genitori, figli, nuore, nipoti – di persone squisite, colte e gentili. Che vendono carni prelibate e altri prodotti scelti con grande cura. Inoltre sono persone sensibili alla crisi ambientale, e a inizio anno regalano borse per la spesa che dovrebbero indurre i clienti a ridurre l’uso degli inquinanti sacchetti di plastica. Ma noi continuiamo, indisciplinati e immemori, a lasciarle a casa…

C’è forse un arcaico, oscuro senso di colpa per il cibarsi, uccidendoli sistematicamente, di altri esseri viventi? Da qui la tendenza a concentrare il male – torna la vittima sacrificale, il “capro espiatorio” – non su chi ne è la principale causa, ma su coloro che sono addetti a “sporcarsi le mani” per procurarci le code alla vaccinara e tutto il resto.

Insomma, cerco meccanismi mentali, culturali, che possano indurre qualcuno a fermarsi un momento a riflettere prima di abbandonarsi alla deriva linguistica e simbolica che rischia di travolgerci tutti e tutte. Se il nemico, con tutte le sue gravissime colpe, è un macellaio che merita come minimo di essere esautorato e processato, la guerra assume tutto il suo significato più radicale: vincere vuol dire eliminare, materialmente e moralmente, l’altro. E tutti quelli che, secondo noi, stanno dalla sua parte.

Tutti i mezzi, in questa visione di tutto il bene contro tutto il male, diventano leciti. E se la logica è – come è – quella delle armi, si arriva dritti all’arma totale e finale.

Sabato scorso ho ascoltato la discussione all’assemblea del Centro per la riforma dello stato, e ho molto apprezzato che in numerosi interventi si tentasse di cambiare l’ordine (in realtà un pessimo disordine?) di questo discorso bellicoso. Cito soltanto quello di Pasqualina Napoletano: proprio quando il conflitto è più acuto e disperante bisogna avere la capacità, e forse il coraggio, di descrivere scenari del tutto alternativi. Per esempio quello di una Europa pacifica capace di pensare se stessa “dall’Atlantico agli Urali”, come si diceva una volta.

Quando Altiero Spinelli e Ernesto rossi scrissero il loro famoso manifesto nel carcere di Ventotene – ha ricordato – disegnando una Europa “libera e unita”, e prefigurando gli Stati uniti di Europa, era l’anno 1941. C’era in atto una orrenda guerra mondiale scatenata da Hitler e non era affatto chiaro chi l’avrebbe vinta.
Oggi dovremmo avere almeno altrettanta potenza (macht, in tedesco…) visionaria.