«Il salario minimo? C’è già, almeno nell’industria». Mentre la mezza maggioranza di governo targata centrosinistra insiste col salario minimo, il presidente di Confindustria Bonomi tira fuori l’industria dal dibattito pur concedendo che in altri settori «i minimi sono davvero molto bassi». Ma sul Patto proposto da lui stesso, poi rilanciato da Draghi, «la risposta dei sindacati è positiva», puntualizza. Industriali e sindacato, insomma, fanno la loro parte in commedia e probabilmente non è la loro canonica reazione a colpire ben poco gradevolmente palazzo Chigi.

La sorpresa è la virulenza con la quale i partiti si sono lanciati sulla proposta, fraintendendola come un ritorno alla concertazione e cercando di cogliere l’occasione per riconquistare una parte del ruolo perduto. Quel modello di concertazione, però, è il contrario di quel che ha in mente il premier. Implica estenuanti e lunghe trattative. Comporta mediazioni e quindi progetti continuamente in forse e in divenire. Draghi, al contrario, ha bisogno di tempi rapidi e obiettivi certi. Il coinvolgimento delle parti sociali, alle sue condizioni o meglio alle condizioni dettate dall’Europa in cambio del Recovery Fund, può essere necessario per evitare quell’impennata della tensione sociale che campeggia nella temuta lista degli ostacoli che potrebbero mandare all’aria il disegno del governo e la sua tempistica. L’irruzione dei partiti, invece, presenta solo lati preoccupanti.

Il rapporto con l’Europa oggi è un’incognita. Se dalle prevedibilmente lunghe trattative per la formazione di un nuovo governo in Germania dovesse uscire una maggioranza-semaforo, con i liberali essenziali, la sterzata almeno parziale verso un ritorno all’austerità sarebbe quasi inevitabile. Non si tornerebbe quasi di certo alla situazione pre Covid, ma i controlli sull’attuazione dei programmi nazionali nei tempi dati diventerebbero ancora più rigidi. A maggior ragione, dopo il terremoto tedesco, Draghi non può permettersi un metodo destinato a rallentare i tempi e a rendere meno tassativo il mantenimento preciso degli obiettivi concordati con Bruxelles.

Ma i partiti, a propria volta, hanno le loro priorità, sin qui tenute in sordina ma riemerse necessariamente con l’approssimarsi delle amministrative. Quelle esigenze hanno già comportato un ritardo sulla tabella di marcia: le riforme del fisco e della concorrenza, due dei capitoli più delicati nel lunghissimo elenco di Draghi, arriveranno solo per la fine di ottobre. Parlarne prima dei ballottaggi sarebbe per i partiti un suicidio, come lo è stato sinora l’affrontare il tema alla vigilia del primo turno.

La fase elettorale, però, si chiuderà con i ballottaggi solo sulla carta. Un attimo dopo la chiusura delle urne, i partiti inizieranno infatti a sentirsi calati nella lunghissima campagna per le politiche, tanto più che nessuno, fino all’elezione del prossimo capo dello Stato, può essere certo di non ritrovarsi alle prese con la sfida elettorale già nella prossima primavera. Il ruolo dei partiti continuerà a essere subordinato, perché questa è la natura stessa del governo Draghi.

Però la fase nella quale i partiti erano letteralmente inesistenti è probabilmente finita ed è in questa nuova temperie che il governo dovrà affrontare un ulteriore passaggio politicamente molto delicato: non tanto la definizione del Def entro settembre, essendo il Documento stavolta ampiamente predeterminato, quanto quella della legge di bilancio entro il 20 ottobre. Sul tavolo infatti, quasi in contemporanea con le riforme difficili del fisco e della concorrenza, ci saranno questioni vitali per i partiti di maggioranza come quota 100 e la revisione del Reddito di cittadinanza.

Tra politica interna e quadro europeo Draghi si accinge quindi ad affrontare una fase ben più difficile di quella precedente. Se in un simile momento il disagio sociale dovesse saldarsi con la protesta contro l’emergenza sanitaria, limitata ma non insignificante, tutto diventerebbe ancora più difficile.