«Questo è un film da campagna Oscar» mi diceva la settimana scorsa un executive newyorkese. Sul muro dietro alla sua scrivania, le foto dei film che, negli anni, ha portato alla statuetta. Il titolo di cui parlava il veterano delle guerre da Academy Awards è Miles Ahead, il vellutato, depistante, biopic su Miles Davis presentato venerdì al Sundance, co-scritto, diretto e interpretato dall’attore afroamericano Don Cheadle. È presto per dire se avrà una chance all’Oscar 2017, ma se il signore che mi stava davanti deciderà di puntarci, Don Cheadle e il suo film avranno il miglior sostegno disponibile sulla piazza. Incentrato com’è su una leggenda del jazz, con colonna sonora, fotografia e costumi d’epoca curatissimi, Miles Ahead ha il pedigree del cosiddetto «film d’arte», o «da festival» (dopo New York e Sundance sarà anche al festival di Berlino).

Nozioni ottuse, obsolete, spesso controproducenti – che questo giornale ha sempre cercato di sovvertire. Ma che riflettono l’idea del «film da Oscar», in cui rientravano, per esempio, 12 anni schiavo, Ray, e il musical Dreamgirls, puntualmente celebrati dall’Academy. Si tratta di uno stereotipo in cui è più difficile riconoscere un film su un gruppo di rappers diventati famosi mandando a farsi fottere la polizia, come Straight Outta Compton, o un film basato su una franchise creata quarant’anni fa da un’anziana star del cinema d’azione, diretto e interpretato da due giovani afroamericani, come Creed. Il che spiega – più che un’accusa generica al razzismo dell’Academy- perché, pur essendo tra i film migliori del 2015, e due successi di botteghino, Straight Outta Compton e Creed non siano entrati nella rosa delle nomination più importanti, con l’eccezione di quella a Sylvester Stallone. Anche Chiraq di Spike Lee – amato dalla critica Usa- avrebbe meritato qualcosa, ma Amazon lo ha distribuito così poco e così in fretta che la chance di impostare una campagna Oscar non c’è proprio stata, mi diceva un responsabile del marketing.

Ben prima del voto dei membri dell’Academy, sono spesso i pattern distributivi, le strategie di marketing, i soldi per promuoverli, l’idea stessa di cos’è un film da Academy Award che indirizzano il destino di un titolo verso la statuetta, o no. Il che rende questo dibattito sull’Oscar bianco più complesso di com’è stato presentato in generale. Dopo due settimane di tempesta mediatica, in risposta alle proteste sollevate per la mancanza di nomination black, e alle minacce di boicottaggio, la presidentessa dell’Academy Cheryl Boone Isaac ha annunciato una serie di cambiamenti nel processo di voto, promettendo di raddoppiare, entro il 2020, la rappresentanza femminile e delle minoranze etniche tra i 6,200 membri dell’Academy, di allargare il board e di istituire una review decennale del diritto al voto, con la possibilità di revocarlo se il membro in questione non è stato attivo nell’industria.

Le iniziative dovrebbero accelerare un ricambio demografico auspicato da anni (l’attuale componente dei votanti è per il 94% bianca, per il 72% maschile e con un’età media di 62 anni) ma difficile da realizzare, perché l’appartenenza all’Academy (le nomination non vengono stabilite da una giuria) è una carica a vita. Con il ricambio demografico e generazionale sarà forse più facile che almeno una parte dei votanti possa apprezzare, oltre a Sidney Poitier e Denzel Washington anche Michael B. Jordan (il bravissimo attore di Creed) o la nuova onda di registi neri di cui fanno parte gli Gary Gray (Straight,..) e Ryan Coogler (Creed), e pensare che un gruppo rap possa valere quanto un musicista jazz. Ci auguriamo anche che gli studios allarghino il concetto di film da Oscar e che l’industria si faccia sempre più diversificata.

Detto questo, la perplessità con cui grandi attori come Charlotte Rampling e Michael Caine si sono pronunciati sulla questione è condivisibile, come il fatto che a Sundance Robert Redford abbia rifiutato di entrare nel dibattito.

Alfred Hitchcock non ha mai vinto un Oscar. Orson Welles ha dovuto accontentarsi di quello onorario, «di riparazione», già attribuito anche a Spike Lee. Marlene Dietrich e Ava Gardner non hanno mai vinto, come lo stesso Redford. Perché l’Oscar, ingiusto o meno, è una scelta di gusto nei confronti di un’espressione artistica. È anche la scelta di un establishment che non può non essere «indietro» rispetto al mondo che il cinema rappresenta. Trasformarlo in un dibattito sui diritti civili sembra un po’ assurdo, nei confronti di problemi più seri, e dell’arbitrarietà intrinseca al processo. Certo, la cosa più inquietante di tutte è che ce ne preoccupiamo così tanto.