«In un contesto estremamente favorevole – 17 trimestri consecutivi di crescita nell’Eurozona – si conferma la ripresa dell’economia italiana, a livelli però ancora insufficienti per rilanciare sensibilmente gli investimenti e assorbire la disoccupazione. Altrove il Pil corre a ritmi ben più sostenuti e il gap tra l’Italia e i principali partner commerciali e finanziari si amplia quasi inesorabilmente ad ogni trimestre». Il duro giudizio che spegne gli entusiasmi di ministri e renziani non viene da un gufo di professione, bensì da un convinto e ottimista liberale come Andrea Goldstein, Chief economist di Nomisma, proveniente dall’Ocse e professore a contratto della Cattolica a Milano.

Goldstein, il suo giudizio sui dati sull’Istat non piacerà al governo…

È un giudizio oggettivo: nessuno contesta che il Pil cresca e che la ripresa si stia consolidando acquisendo già a metà anno le previsioni. D’altro canto però ad ogni trimestre il nostro Pil cresce meno degli altri Paesi europei aumentando il gap, che è quindi strutturale. Dopo anni di stagnazione in cui i consumi privati e i macchinari delle imprese sono rimasti al palo è normale che anche in Italia arrivi un rimbalzo tecnico. Se vogliamo usare una metafora ciclistica, potremmo dire che abbiamo passato un colle di una tappa dolomitica.

Definendolo «gap strutturale» lei però smentisce chi fra governo e renziani dà il merito della crescita proprio alle riforme strutturali fatte in questi anni a partire dal Jobs act..

Il gap strutturale riguarda in primo luogo la carenza di investimenti privati e soprattutto pubblici, basti pensare all’arretratezza della nostra rete autostradale, assieme ad un ritardo nelle liberalizzazioni che aggrediscano le rendite di posizione che ingessano il Paese. Le riforme come il Jobs act dal mio punto di vista hanno migliorato il quadro microeconomico ma non possono essere considerate ragione di crescita. Anche perché non conosciamo ancora quale componente della domanda aggregata (consumi, investimenti) è aumentata di più nel secondo trimestre.

Riguardo alle previsioni del governo non pensa che Padoan e Gentiloni siano stati più furbi di Renzi e le abbiano tenute basse apposta per poter poi rivendersi un risultato sopra le aspettative?

Non so se Padoan sia stato furbo, di certo l’esegesi realista è meglio dal punto di vista politico: sbagliare per difetto garantisce margini di manovra superiori. La soglia dell’1 per cento del Pil annuale, che Renzi non è mai riuscito a raggiungere al governo, ha un valore mediatico più forte dello scostamento fra l’1,2 previsto dal governo e l’1,5 probabile.

Un miglioramento che permetterà a Padoan una manovra più leggera. Possiamo già stimare di quanto l’aumento di Pil ridurrà la correzione del deficit prevista nel Def e concordata con la commissione Ue?

Diciamo che sicuramente allontana agevolmente l’aumento dell’Iva e la copertura delle salvaguardie. Politicamente è un colpo importante che mette fieno in cascina per altri provvedimenti.
Padoan ha già definito la priorità: il taglio del cuneo fiscale per i giovani. La trova una mossa giusta?
Assolutamente sì. Tutte le ricerche internazionali mostrano che sei i giovani non riescono a trovare lavoro per lungo tempo sono destinati a carriere con bassi stipendi. Il problema principale è che il tasso di occupazione da noi è troppo basso: in Germania lavorano 44 milioni di persone su 80 milioni di popolazione; da noi 23 milioni su 60 milioni. Servono almeno 7-8 milioni di occupati in più. Non solo giovani.

Al di là dell’aspetto quantitativo è decisivo però quello qualitativo: i già pochi posti di lavoro creati dal Jobs act sono precari e di livello formativo e tecnologico basso specie per i giovani.

È il solito problema del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: anche la Germania nell’ultimo decennio si è appiattita su un mercato del lavoro di tipo americano nel quale i posti non sono più con alti stipendi e garantiti. In questo momento per l’Italia io mi accontenterei anche di questo.