Se si deve riflettere sul rapporto fra Guido Reni e Caravaggio è più facile farlo guardando le riproduzioni fotografiche piuttosto che le opere vere e proprie: il modo di dipingere di Caravaggio potrebbe apparentemente somigliare a quello di Guido nella derivazione ferma di una foto. Caravaggio e Guido non dipingono nello stesso modo; il pittore milanese è forte, violento non solo di testa ma anche di mano; il bolognese è delicato persino quando raffigura la crudeltà, il martirio, come se dipingesse sulla seta, a dire di Roberto Longhi.

Nell’opera più caravaggesca di Guido, La crocifissione di San Pietro, esposta oggi nella mostra Guido Reni a Roma Il sacro e la natura (alla Galleria Borghese, fino al 22 maggio), il pittore sembra invaghito dello stile «gagliardo e osservante il naturale», come si scrive nel catalogo (ed. Marsilio). Ma se si guarda la pala del Caravaggio con lo stesso soggetto a Santa Maria del Popolo insieme a quella del Reni, seppur la datazione sia all’incirca la stessa, la vicinanza si rivela superficiale più che profonda, la distanza è simile a quella che separa Shakespeare da Racine. Nel Caravaggio la tragedia regola ogni cosa, in Reni la squisitezza corona le piume del manigoldo in alto in un cielo perfettamente delineato, senza sole. La distanza che separa questi artisti, della pittura e della tragedia, resta incolmabile.

Guido Reni, “Gregorio XV”, Inghilterra, Corsham Court. L’opera non figura in mostra

Una delle composizioni più belle di Guido Reni, Atalanta e Ippomene, è esposta oggi a Villa Borghese ma di questa meravigliosa immagine si conoscono due versioni: una nel Museo di Capodimonte – quella oggi esposta – e un’altra del Museo del Prado. La prima era la sola nota fino al 1965 quando il quadro di Madrid, reduce da un lungo esilio nell’Università di Granada fin dal 1881, dopo un’accurata pulizia venne studiato con precisione da Alfonso Pérez Sánchez (Pintura italiana del s. XVII en España, 1965, con ben 144 pagine dedicate a Guido e ai bolognesi, un testo non superato in lingua spagnola che include alcuni quadri meravigliosi di quella scuola). Il dipinto del Prado risulta menzionato nell’inventario del Palazzo Reale di Madrid fin dal 1666. La qualità è ottima e così apparve non solo a Pérez Sánchez ma anche a Mahon, Pepper (1984), Schleier e Rosenberg. Allora si tendeva a datarlo attorno al 1612.

Francesca Cappelletti, in uno dei suoi brillanti testi che accompagnano la mostra, ricorda che Guido – come lo si chiamava all’epoca sua considerandolo «divino» – diceva che i suoi doni non li aveva ereditati: erano frutto di fortuna o acquistati con lo studio, negandosi il necessario riposo notturno fino alla stanchezza. Questa affermazione del maestro è sorprendente: a lui nei tempi moderni tutto sembra donato dal cielo per bontà divina, appena giunto a Roma, quando indovina che la sua stella doveva seguire la luce di Raffaello. Una strada singolare, questa. Intende la via subito, o quasi, e nel Cristo alla colonna del 1604 dell’Istituto Städel di Francoforte arriva quasi a mescolare la luce del Caravaggio e quella dei neoclassici fino a prevedere i tempi di David, più di un secolo dopo.

Guido Reni, “Conversione di Saulo”, Escorial

In un articolo scritto dal novantenne Bernard Berenson alla fine della sua vita (in Essays in Appreciation, Londra 1958) si menziona il ritratto di un papa di Guido Reni a Corsham Court che Berenson considera un antefatto del celebre Innocenzo X di Velázquez nel Palazzo Doria Pamphilj di Roma, e aggiunge che questi due ritratti «non devono essere messi a confronto in merito alla qualità della pittura, comunque lo studio del carattere nell’opera di Guido non è certo inferiore. Sotto il profilo psicologico il suo papa è incomparabilmente più interessante. Al posto del pletorico, del sanguigno e dell’animalesco che traspaiono da Innocenzo X abbiamo qui un disilluso, meditativo, vecchio essere umano rassegnato». Oggi il quadro di Reni è noto come ritratto di Gregorio XV Ludovisi, papa fra il 1621 e il 1623, circa trent’anni prima dell’effigie del Pamphilj.

Il piccolo articolo di Berenson, come egli stesso scrive, è in sintonia coi giovani di allora, della fine degli anni cinquanta. Berenson ricordava come ai tempi della sua prima gioventù, verso il 1888, l’Aurora di Reni a Palazzo Pallavicini Rospigliosi fosse una delle opere più ammirate di Roma, quasi quanto la Cappella Sistina o le Stanze di Raffaello, ma come poi il culto dei primitivi ebbe il sopravvento. Così Guido e Domenichino vennero nuovamente dimenticati, ciò che, dobbiamo ammetterlo, è accaduto alla maggior parte delle opere d’arte lungo i secoli. Ma nonostante la sua età, l’ormai vecchissimo B. B. era felice di vedere quello che fu il vero revival di Reni, la mostra monografica curata nel 1954 a Bologna da Cesare Gnudi col beneplacito inatteso del Longhi.

Nella attuale esposizione della Galleria Borghese si cerca di accennare alle capacità di Guido Reni come paesaggista, un fatto forse leggermente esagerato ma quasi vero. Poteva esserlo ma l’apprezzamento della natura nelle sue opere serve soprattutto da fondale scenico, ciò che fa parte di quel senso teatrale, non necessariamente negativo, che molti critici e storici a suo favore non mancano di menzionare. Per dirlo in una parola Guido può commuoversi davanti ad un paesaggio ma non come aveva fatto Annibale Carracci o come farà dopo il Guercino. Il suo contributo in questo campo è, come si intende in questa mostra, simile a quello di alcuni fiamminghi o a quello di altri pittori dei suoi tempi come il più giovane Saraceni.

La sua grandezza però va cercata altrove: per fare un esempio venuto alla luce poco tempa fa, la meravigliosa Conversione di Saulo ritrovata nell’Escorial ma proveniente da Villa Ludovisi, dove era nel 1633: la scoperta si deve allo studioso spagnolo Gonzalo Redin.