A un certo punto del secolo scorso, per rimarcare con enfasi dispregiativa quanto una persona fosse ormai antiquata e fuori dal tempo, si è cominciato a collocarla nell’Ottocento. Dire a qualcuno che pareva sbucato dall’Ottocento suonava più offensivo che dargli del cavernicolo o del medievale, perché se preistoria e medioevo erano così estranei al presente da risultare quasi esotici, l’Ottocento restava in fondo un passato ancora prossimo, rivelandosi pertanto semplicemente vecchio e da buttare. L’infelice espressione «Ok, boomer», molto cara agli odierni millennial, è solo in superficie un equivalente contemporaneo di quel modo di dire.

Malgrado dia l’impressione di attingere a uno stesso sentimento, a un analogo distacco da quel che si percepisce come ormai sorpassato e inutile, questa espressione tradisce una frustrata insofferenza per la generazione prospera e longeva dei cosiddetti boomer, ritenuta responsabile dei problemi con cui i giovano sono costretti a convivere e dunque non titolata a parlare di futuro o a tenere prediche in nome dell’esperienza.

Distanza tra generazioni
Quanto siano fondate le accuse è questione secondaria rispetto al fatto che l’insofferenza non si è mai tradotta, come in altre epoche, in un conflitto aperto e violento tra vecchi e giovani, bensì in una sorta di tregua, un reciproco e sdegnoso ignorarsi o al più un osservarsi con sufficienza, un parlare tra sordi le cui dinamiche non sono appunto quelle dello scontro ma del distanziamento. La parola «distanziamento», lo sappiamo, è diventata di uso comune per ben altri motivi, sebbene poi non così disgiunti dal distacco tra generazioni. Ne è una dimostrazione Riaffiorano le terre inabissate di M. John Harrison (edizioni Atlantide, bella traduzione di Luca Fusari, pp. 272, € 24,00), dove la presa di distanza tra individui, benché nominata forse non più di una volta, pervade ogni pagina in maniera così opprimente e rovinosa, che è impossibile non riandare col pensiero a quanto abbiamo patito negli ultimi due anni.

Apparso in Inghilterra nel giugno 2020, il romanzo non può che essere stato concepito e scritto prima della pandemia, e se dà la sensazione di averla anticipata non è tanto perché descrive pericolose malattie trasmissibili, quanto perché nella sua strana cupezza è riconoscibile il modo in cui abbiamo reagito alla catastrofe, un modo in parte imposto dagli eventi, ma in parte anche espressione di un malessere latente e sommerso in cui la nostra società già versava e che la pandemia ha semplicemente portato alla luce.

Per dirla con l’immagine evocata nel titolo, M. John Harrison si è limitato a far riaffiorare qualcosa che avevamo inabissato, qualcosa che ne stava da molto nascosto sotto il tappeto. Parliamo del resto di uno scrittore con una lunga strada alle spalle. L’anagrafe e il suo curriculum letterario gli conferiscono i crismi del perfetto boomer. Nato nel 1945, ha pubblicato romanzi e racconti perlopiù ascrivibili al genere che meglio ha incarnato le magnifiche sorti e progressive di stampo novecentesco, la fantascienza, tanto che dalle nostre parti lo si era finora letto soltanto sulle pagine di Urania.

I protagonisti delle sue storie avevano però molto poco di avveniristico, erano individui scialbi e scorati nei quali si riconosceva un tipo d’uomo comunque parecchio diffuso nel secolo scorso: l’outsider. Disadattati erano del resto anche gli scalatori di rupi dello Yorkshire che popolavano Climbers, romanzo datato 1989 e per più di un verso autobiografico; l’unico libro di Harrison – almeno fino a ieri – estraneo alla narrativa di genere. Se un filo rosso lo unisce a Riaffiorano le terre inabissate, non è soltanto il comune misurarsi con il mainstream. Climbers parlava di un uomo, un certo Mike, che lascia Londra per le alture della brughiera nel tentativo di fuggire da un matrimonio allo sbando. Un uomo in crisi esattamente come Shaw, il protagonista di questo nuovo romanzo, che reagisce alle difficoltà scollandosi dal contesto che lo circonda, precipitando in un ottundimento apatico, in una chiusura che gli preclude ogni forma di slancio e desiderio.

A lasciare sgomenti – e con ciò arriviamo al distanziamento generazionale – è però l’assenza dei giovani. L’Inghilterra di Riaffiorano le terre inabissate, che sia quella metropolitana della Londra umida e triste in cui si aggira Shaw o quella rurale del borgo delle Midlands dove va a ritirarsi Victoria, la donna con cui Shaw ha avuto una breve e discontinua relazione, sembra abitata soltanto da persone di mezza età, se non più anziane. Che fine abbiano fatto i giovani, se siano spariti o si tengano invece solo alla larga dai vecchi non è dato sapere. Certo è che sembrano una manifestazione lontana e sommersa, antica e letteraria, aliena alla vita di ogni giorno.

Si appalesano soltanto in maniera indiretta, grazie alla persistente circolazione di un vecchio romanzo per l’infanzia, I bambini acquatici di Charles Kingsley, libro che, sempre per non spiegati motivi, è connesso a un non meno chiaro innalzamento delle acque e agli umanoidi che forse vi si nascondono.
Espulso dal corpo centrale della storia, il fantastico vi rientra dunque dalla porta di servizio? Per certi versi sì, ma assumendo i contorni del complottismo, patetica realtà del nostro tempo. Cosa stia per riaffiorare dalle acque – se giovani mostri o altro – e soprattutto se stia davvero per affiorare qualcosa resta un punto di domanda indistinto, anche perché né Shaw né Victoria si sforzano più di tanto per venire a capo del mistero. Presi come sono nelle loro rispettive derive, è già tanto che il mistero sia da loro percepito con la vaghezza di un’eco lontana, come una mosca che si agita ai margini del campo visivo.

Il romanzo procede dunque tenendo un inquietante equilibrio, con la narrazione sempre sospesa tra i territori del quotidiano e quelli del fantastico, tra la mancanza quasi assoluta di una trama e l’incombere di un intreccio oscuro e complesso, tra lo stallo apparente di un libro in cui nulla avviene e la minaccia costante di accadimenti fuori dell’ordinario, capaci di sconvolgere il tessuto della realtà.

Disconnessi da tutto
In questo mondo sospeso, Lovecraft occhieggia dallo sfondo ma il primo piano è sempre dominato dal panorama desolante di un paese che non si è mai ripreso dall’era Thatcher, uomini e donne incapaci di comunicare e desiderarsi, defilati, arresi, disconnessi da tutto. Sorretta dal trionfo di una lingua straordinaria, l’attenzione visionaria e ossessiva che Harrrison dedica al paesaggio inteso come un’entità psichica a sé stante e più viva delle persone rientra nel solco di una precisa tradizione britannica, che da Cime tempestose si spinge fino a un classico dei tempi recenti come London orbital di Iain Sinclair. E allo stato di classico del presente aspira anche Riaffiorano le terre inabissate. Pochi altri libri inquadrano infatti con altrettanta nettezza il nostro Zeitgest. Resta l’opera di un vecchio che parla di vecchi, questo sì, e nondimeno, in virtù della sua distintiva alchimia, va collocata tra quanto di più nuovo e inusitato ci sia dato di leggere al momento.