All’inizio, la vediamo nascere: è il 1967 e Lygia Pape esce da un cubo in riva al mare. Acqua e uovo, due elementi che segnano l’esordio della vita e per l’artista brasiliana quel venire al mondo s’interseca con la storia del suo paese, in quegli anni sotto dittatura. «Sei intrappolata all’interno – dirà presentando il film O ovo – riparata da una sorta di membrana, ma quando la spingi con la mano, comincia a incrinarsi, fino alla rottura: e così sei nata, la testa è sbucata fuori e il corpo rotola sulla terra».

LA PRODUZIONE multiforme dell’artista di Rio de Janeiro (1927-2004) arriva per la prima volta in Italia in una mostra coerente e lucida ospitata nell’antica Casa Parravicini, una delle poche residenze quattrocentesche di Milano, oggi sede della Fondazione Carriero. Una personale, a cura di Francesco Stocchi (visitabile fino al 21 luglio) che riesce a far entrare il pubblico nello studio dell’artista – almeno nel processo mentale da cui scaturiscono le opere. Il percorso, infatti, è allestito con la collaborazione del Projeto Lygia Pape.

Nessuna cronologia ma una continua risonanza di forme con l’architettura e un invito alla sinestesia percettiva. Così l’apparente rigidità insita nel «costruttivismo» degli oggetti – libri, pattern geometrici – si scioglie nel confronto con la luce naturale e muta la sua condizione. D’altronde, proprio lei – utilizzando più strumenti espressivi, dal film sperimentale all’incisione – con Lygia Clark e Hélio Oiticica volle uscire dalla «sclerosi della scena artistica brasiliana» attraverso il neoconcretismo, optando per una visione astratta che non escludesse il dato sensoriale e che proseguisse in direzione di una pratica partecipata, interattiva.

Con le sue Tecelares (tessiture) graffitate Pape tentava di aprire lo spazio con il minimo di elementi, sempre a volo d’uccello, lasciando la terra per «arare» lo sguardo dall’alto. Fino ad arrivare a quell’incantesimo (concettuale e sensuale insieme) rappresentato da un’installazione come Tteia, fili d’oro intrecciati che si estendono dal pavimento al soffitto, formando arcobaleni e vie lattee inaspettate. L’idea è sempre la stessa: fuoriuscire dai confini, riscoprire l’ambiguità dei margini e il principio del disordine emotivo anche in elementi seriali che tali non sono, grazie a piccoli scarti o rovesciamenti a specchio.
Fra le «creature fenomenologiche» per eccellenza l’artista individuò i libri. I suoi erano vissuti dai visitatori e, a loro volta, originavano universi. Come quel Livro da Criação (1959-60), costituito da inserti di carte colorate che narrano una storia se vengono «agiti» da mani umane (come mostra bene un video che ne testimonia la «performance»). Nella dicotomia tra il vuoto e il pieno, l’assenza e la presenza, scorre infine anche Divisor.

DA PRINCIPIO, è un grandissimo «foglio» bianco (per l’artista, simboleggia una specie di epidermide) interrotto da buchi ritagliati a intervalli regolari: Lygia Pape lo portava con sé nelle favelas di Rio e invitava i bambini al gioco. Loro si inserivano in quel «corpo cangiante» trasformandosi in una scultura collettiva, un organismo sociale che è anche qualcosa di misterioso e insondabile, «una superficie nata da numerose incrinature». Identità e perdita del proprio centro: un’indagine mai abbandonata, che torna anche in quel meraviglioso documentario che è A mão do povo (la mano del popolo), in cui l’artista «catalogava» gli oggetti della tradizione popolare prima del loro dissolversi nell’urbanizzazione forzata di intere generazioni di brasiliani.