Milioni di alberi al posto dei parcheggi, grattacieli di legno, metropoli che adottano e rivitalizzano i paesi dell’Appennino, scuole sempre aperte come piccole agorà… Appunti per la transizione ecologica delle città secondo Stefano Boeri, architetto e urbanista, docente del Politecnico di Milano, città dove ha realizzato il Bosco Verticale, un grattacielo alberato, e del Manifesto per la Forestazione urbana, un appello a inverdire quanto più possibile le aree urbane per la «sopravvivenza ambientale della città contemporanea». Boeri è anche direttore del Future City Lab alla Tongji University di Shanghai, un programma di ricerca sul futuro delle metropoli.

Architetto Boeri, com’è la sua città ideale?

Più che una città definita in senso architettonico-spaziale come nella tradizione utopica, penso che una città ideale possa nascere dalla combinazione di due azioni: una è quella degli alberi che entrano in città in modo pervasivo, l’altra è quella, complementare, di noi umani che andiamo verso le foreste, che ci prendiamo cura dei boschi e della natura con la giusta attenzione per la biodiversità e con la costruzione di sistemi naturalistici di riconnessione. La mia visione della città ideale non è una concezione estetica, semmai nasce dalle opportunità che abbiamo di cambiare il rapporto tra foreste e città.

In Italia come si potrebbe realizzare?

Le grandi aree metropolitane dovrebbero adottare porzioni di fascia appenninica con l’obiettivo di sostenere i piccoli centri. Il bacino del sisma del 2016 nell’Italia centrale è stato trasfigurato da una catastrofe, ma era già percorso dalla tragedia graduale e continua dell’abbandono. Non siamo di fronte ad un’emergenza, ma ad un tema strutturale, perché quelli sono luoghi che hanno perso la capacità di attirare l’attenzione delle politiche e investimenti, mentre bisogna invertire questo processo. Per farlo non possiamo pensare di affidarci alle comunità montane che non esistono più, alle Province che sono state distrutte da un punto di vista giuridico, ma dobbiamo partire dal cuore pulsante dei processi di sviluppo dove l’energia c’è, cioè dalle aree metropolitane. Così si creano mille opportunità, in forme che sono tutte da inventare.

Lei sta lavorando nelle zone terremotate (malgrado l’inchiesta per un presunto abuso edilizio contestato sul centro polivalente di Norcia costruito in legno smontabile per ordinanza del sindaco su un’area non edificabile): come vede la possibilità di ricostruire paesi e comunità partendo dalla possibilità di vivere in sicurezza?

Il tema è non rincorrere l’identico, semmai l’autentico. Sono zone che non potranno tornare uguali a prima, perciò occorre trovare forme nuove di sviluppo. Se il loro valore è legato alla cura del territorio, questa va ripresa con nuove tecnologie e nuove funzioni. Per fare un esempio, sono zone dove si potrebbe sviluppare un’economia del legno: noi importiamo legno dall’estero pur avendo una superficie forestale in costante aumento. Quella del legno è una filiera su cui andrebbe fatto uno sforzo: penso al mondo degli arredi, ma anche all’edilizia. Oggi abbiamo capito che il legno è un materiale leggero, agile, antisismico. Si possono fare cose straordinarie con il legno.

Tornando alla città ideale, è un po’ diversa da Milano, la sua città. Qual è il suo giudizio sulle politiche ambientali di Milano, una delle metropoli più inquinate al mondo? E cosa dovrebbe fare per continuare ad essere attrattiva e vivibile nel tempo?

Milano sconta la sua posizione geografica penalizzante dove le polveri sottili e altri veleni ristagnano in modo persistente. Sul traffico sono state fatte azioni importanti, ma non abbastanza. Sul verde c’è oggi un grande impegno, il progetto ForestaMi per la piantumazione di 3 milioni di alberi nei prossimi 10 anni al quale anch’io partecipo. È molto ambizioso, del resto sappiamo che è uno dei pochi modi che abbiamo per ridurre le polveri sottili e il calore estivo. La forestazione verrà fatta a partire dalla mappatura del calore urbano che individua le zone a maggior rischio. Le cose da fare sono ancora tante sul fronte del riscaldamento e delle rinnovabili: credo però di poter dire che oggi il sindaco Sala abbia ben capito questa necessità di transizione ecologica.

Piantare alberi sembra un’operazione semplice, però nella realtà non lo è. Quali sono secondo lei gli ostacoli maggiori: gli strumenti urbanistici, la rendita fondiaria o una resistenza culturale?

Il problema è sia culturale che politico. Bisogna mettersi nell’ottica di de-pavimentare parti della città a partire dall’eliminazione dei posteggi a raso. È inevitabile, ma lo dovremo fare: qui la resistenza è di tipo culturale. Se penso invece alla riqualificazione degli scali merci di Milano, di proprietà delle Ferrovie, vedo difficoltà di vario tipo. Noi avevamo proposto che scali e binari diventassero «fiumi verdi» (90% verde, 10% edificato), ma vedo avanzare progetti che ridurrebbero il verde al 50%, troppo poco. È un’operazione partita bene, con una regia pubblica, con il Comune attivo. Io credo bisognerebbe riaffermare che è una grande opportunità per portare natura in città.

C’è spazio per l’agricoltura urbana nella città in transizione?

Sicuramente c’è, anche se su questo tema si fa un po’ di retorica e di demagogia. Sono interventi che hanno bisogno di molta cura e investimenti. I tetti verdi di Parigi sugli edifici pubblici, le fattorie verticali in Olanda in edifici dismessi, gli orti di comunità co-gestiti dai cittadini sono esempi concreti, ma non sono facili da realizzare. Milano però è una delle pochissime metropoli che ha un parco agricolo, il Parco Sud, sfruttato per decenni con coltivazioni intensive in attesa della speculazione edilizia. Oggi vedo che c’è un lento lavoro per riconvertirlo ad un’agricoltura di nuova generazione molto più attenta alla biodiversità, è un segnale positivo.

Un’altra grande sfida per l’edilizia sarà quella di de-carbonizzare gli edifici, cioè abbattere le emissioni di CO2 migliorando l’efficienza degli impianti, ma anche usando materiali diversi dal cemento, fortemente energivoro. Sarà possibile abbandonare il cemento, prima o poi?

Sarà un processo molto lento, che consisterà nel graduale innesto di manufatti realizzati con materiali che hanno un impatto inferiore. La ricerca su nuove tipologie di materiali è fondamentale: noi stiamo lavorando, per esempio, sulla paglia compressa come elemento di coibentazione insieme al legno. È un campo davvero stimolante.

Nelle università si insegna un approccio verde all’architettura? Lei trova giovani architetti formati in questo senso?

Oggi gli studenti hanno una straordinaria consapevolezza della necessità della transizione ecologica, nel senso giusto del termine, non ideologica o estetica. Che questo si rifletta nei corsi universitari direi di no, siamo ancora lontani.

Molto si decide sui tavoli degli uffici tecnici, come possono formarsi questi professionisti?

Io credo sia cambiata la percezione del futuro, siamo di fronte ad una dimensione istantanea del futuro. Ci rendiamo conto che le scelte che facciamo nella vita quotidiana possono incidere sui tempi lunghi dell’evoluzione del pianeta ma non abbiamo il tempo per verificarlo. Certo, avremmo bisogno di un immediato cambio generazionale, ma anche questo non è fattibile. Il problema, semmai, è che politica lavora su un’idea di tempo che coincide con le scadenze elettorali, 4-5 anni, mentre bisognerebbe lavorare sia sulla vita quotidiana sia sui tempi molto più lunghi dell’evoluzione dei fenomeni legati ai cambiamenti climatici.

Ci vorrebbe più pianificazione?

Serve più regia, più visione. E poi mi sembra indiscutibile che questa transizione può avvenire solo se c’è un coinvolgimento dal basso. Quello che abbiamo detto dobbiamo farlo tutti, insieme e subito. Non si può invertire il fenomeno del surriscaldamento del pianeta con scelte autoritarie.

Tra gli obiettivi di Sviluppo sostenibile dell’Onu si indica la necessità di un’urbanizzazione inclusiva e partecipata. Lei ha esperienza in questo senso?

L’esperienza che stiamo facendo a Genova nella zona del Polcevera, sotto il ponte Morandi, mi sembra importante. Lì abbiamo previsto un grande parco per riqualificare il quartiere con una passerella ciclo-pedonale, un cerchio rosso di acciaio, che è anche un collettore di energia. Il progetto lo abbiamo definito discutendo con i cittadini, incontrando anche i parenti delle vittime. Certo, la partecipazione non deve essere mai un modo per deresponsabilizzare la dimensione tecnica. C’è coinvolgimento quando si è in grado di proporre alternative chiare sulla visione dello spazio. C’è partecipazione quando c’è un progetto forte.

Trasferiamoci a Cancun, in Messico, dove ha realizzato il masterplan di una Smart Forest City per 120mila abitanti, auto-sufficiente. Chi è il committente e cosa intende realizzare?

Il committente è una società che realizza insediamenti di ricerca. A Cancun intende creare un luogo dove attrarre sia università sia multinazionali affinché i giovani messicani possano lavorare senza dover migrare. Lì abbiamo immaginato una città di nuova generazione, molto verde, autosufficiente dal punto di vista energetico, percorsa da canali, circondata da serre. Ci sono zone del mondo – ci piaccia o meno – dove i processi migratori sono così forti che è necessario continuare a costruire città nuove per evitare che si creino solo agglomerati senza qualità, senza trasporti, senza servizi.

Non c’è il rischio che questi insediamenti realizzati a tavolino risultino luoghi finti, senz’anima?

Come no. Il rischio è assoluto. Conosciamo progetti di nuove capitali, dalla Corea del Sud al Sud America, che sono diventate grandi mostri. Noi invece cerchiamo di dimostrare che è possibile pensare una città radicalmente diversa, fissando delle regole ma anche mettendo sul campo un certo numero di possibilità per lasciare che l’evoluzione della città avvenga con spontaneità, altrimenti è una follia. Per me un testo di riferimento su questo tema è La Règle et le Modèle, della storica francese dell’utopia Françoise Choay: mi ha insegnato a non perdere l’ambizione di creare città nuove, consapevole che questo processo non può essere basato sull’imposizione di un modello deterministico chiuso.

La Trudo Tower, che sta costruendo a Eindhoven, Olanda, è la versione «popolare» del suo esclusivo Bosco Verticale, pensata per l’edilizia sociale. Quindi il Bosco Verticale può essere accessibile a tutti?

Non le nascondo che dalla costruzione del Bosco Verticale in poi la principale preoccupazione era quella di dimostrare che è possibile ripetere quel tipo di prossimità tra alberi e umani a costi accessibili, sennò il progetto avrebbe perso il 90% del suo senso. Con la Trudo Tower, che sta sorgendo in un quartiere che rappresenta una delle più interessanti esperienze di rigenerazione urbana in Europa, questo è stato possibile, grazie ad un committente illuminato che ci ha proposto di fare questo esperimento.

Come avete contenuto i costi?

Abbiamo lavorato sulla pre-fabbricazione che in quel caso è ancora di tipo tradizionale, purtroppo, in cemento e acciaio. Poi abbiamo lavorato sulle modalità della manutenzione del verde, imparando anche dagli errori del Bosco Verticale che per noi è tutt’ora un esperimento. Ne abbiamo capito i limiti come i successi inaspettati.

Quello di Eindhoven è un caso isolato?

In Cina stiamo costruendo 2 boschi verticali di edilizia popolare, che avranno un costo ancora inferiore. Ma la vera sfida per noi, che ritengo fondamentale, è la pre-fabbricazione in legno, sulla quale siamo già impegnati in un progetto legato al post-sisma in Albania.

Quanto può durare un edificio costruito in legno? E quanto può essere alto?

Non c’è alcuna differenza nella durata rispetto ad altri materiali, anzi. E possiamo arrivare a 70 metri, utilizzando esclusivamente legno, se poi lo usiamo abbinato al cemento armato non ci sono limiti.

Il modello del Bosco Verticale può essere applicato alla riqualificazione degli edifici?

Si può fare, accostando facciate strutturalmente autonome. Lo hanno fatto due architetti franco-svizzeri, Lacaton & Vassal (premio Mies Van Der Rohe 2019, ndr) che hanno riqualificato il Gran Parc di Bordeaux, un enorme complesso di case popolari, con un sistema di spazi interni e balconi, non verdi, ma con innovazioni sul piano termico. Noi ci stiamo basando sul loro lavoro, ma i costi non sono irrilevanti. Devo dire però che in Italia dobbiamo porci la questione della sostituzione edilizia.

Sostituzione significa demolire e ricostruire?

Ne sono abbastanza convinto: noi abbiamo in Italia 14,5 milioni di edifici, dei quali 4 milioni potrebbero essere sostituiti perché soffrono di degrado strutturale avanzato e sono desueti sul piano funzionale, per esempio dal punto di vista energetico. Quasi tutti gli edifici degli anni Settanta sono difficilmente riconvertibili. Bisognerebbe favorire la demolizione, cosa che non viene fatta, per introdurre architetture innovative che consentano di diminuire il consumo di suolo e le emissioni, questa è un’altra grande strada su cui lavorare.

Sarebbe questa la vera grande opera italiana?

Esattamente. Una politica di rigenerazione, con grande attenzione per gli aspetti sociali, a partire dalle scuole, che sono in uno stato drammatico.

E la sua scuola ideale com’è?

In Albania stiamo progettando 22 nuove scuole pubbliche pensate per essere aperte a tutte le ore del giorno, a tutti i cittadini, che diventino l’epicentro della vita dei quartieri. La rigenerazione della scuola pubblica in Italia dovrebbe seguire quel modello. La scuola pubblica è la linfa fondamentale per qualsiasi progetto di città, è l’unico luogo dove si fa esperienza delle differenze, dove avviene il primo incontro con culture diverse. Oggi sono strutture sottoutilizzate, ma potrebbero diventare delle piccole agorà aperte e fruibili per vari scopi. Una città fatta di parti omologate che non si incontrano, che non dialogano, non è più una città.