Il celebrato monologo di Patrick Süskind, dove il contrabbasso era definito «più un ostacolo che uno strumento», e si disegnava come «un mostro», destinato a intromettersi con prepotenza «tra due esseri umani che si amano» era sembrato a Stefano Scodanibbio, niente altro se non un pezzo di stucchevole folklore. Molto corrivo, molto banale. Al contrario, Scodanibbio interpretava il contrabbasso come un sistema vegetale, ligneo e cavo, dove esplodeva la vita, e il desiderio si proiettava nell’estensione di tutte le sue voci.
Per chi ha avuto la chance di sentirlo, suonato da Scodanibbio, il goffo mostro di Süskind poteva diventare il serbatoio di un’intera poetica strumentale, affacciarsi sullo spazio aperto, dare luce, come un benefico tragitto solare, all’oscurità di qualsiasi prigione o custodia. Lo testimonia ora un libro irrinunciabile per chi ha conosciuto Scodanibbio come strumentista, ma anche per chi vuole indagare, nel succedersi di avanguardie e di utopie, la musica del secondo Novecento: Non abbastanza per me Scritti e taccuini (Quodlibet, pp. 304, € 19,00), curato da Giorgio Agamben e Maresa Scodanibbio, diviso in tre parti – Ritratti ed echi, Taccuini 1977-2011 e Note ai pezzi – preceduto dalle pagine intime e dolenti di un omaggio en amitié di Giorgio Agamben, intitolato Battito e forma.

Il contrabbasso di Stefano Scodanibbio era, per Agamben, una specie di grande selva dantesca: intrico e smarrimento, venatura viva del legno, autocoscienza, rivoluzione. L’anima – si chiama così, negli strumenti ad arco, il legnetto verticale che unisce le due superfici della camera di risonanza – diventa il perno, il punto chiave per l’insorgere di una pulsione desiderante, di un dionisismo inarrestabile: due qualità che Scodanibbio nutriva senza paura, lontano da tutto ciò che volesse fermarsi al musically correct o adagiarsi nei convenevoli e nelle routines commerciali. Così, per esempio, si riaffaccia nel libro il ricordo delle esecuzioni del Prometeo di Luigi Nono: l’«opera lignea», come l’avrebbe definita Arbasino; ma anche il trionfo della mostruosa tecnica dell’arco di Scodanibbio, così descritta dallo stesso Nono: l’«arco mobile continuamente rotante su se stesso con variazioni anche minime tra crini-legno».

E ancora, le ricerche sui suoni armonici da scovare nella quiete apparente dello strumento, e le sovrapposizioni tra corde premute e sfiorate, e i pizzicati con la mano sinistra che andavano a interrompere il flusso dell’arco… Insomma, la tecnica appariva come una utopia nervosa, mai appagata di sé. E lo strumento come un contenitore di materia densa, quasi un cervello, popolato di voci musicali e letterarie (tra queste, l’anarchia poetica di Vittorio Reta; e poi Pessoa, Lowry, Cortázar; e infine l’apprendistato nel Novecento in compagnia di Edoardo Sanguineti, che affiancò gioiosamente Scodanibbio nell’interpretazione di Postkarten, Alfabeto apocalittico e altre invenzioni).
Un libro di paperoles, e spesso proprio di cartoline e di ricordi, proiettati nel continuo nomadismo del musicista e della sua mente. Forse l’unica forma possibile di quel «romanzo del contrabbasso» che Scodanibbio stava scrivendo nella materia del legno, nel continuo muoversi, segmentarsi, incresparsi del suono.