Forse nemmeno troppo una coincidenza, mentre ci si avvicina all’epilogo della presidenza di Barack Obama, in Birth of a Nation, di Nate Parker, e Loving, di Jeff Nichols il cinema americano di quest’anno ha affrontato la realtà e l’eredità indigeribile dello schiavismo attraverso personaggi realmente esistiti nella Storia.

La difficoltà oggettiva di trattare l’argomento si legge nella texture stessa di questi due film – ideologicamente e formalmente grezzo e confuso quello dell’esordiente afroamericano Parker; sorprendentemente convenzionale, timido, rispetto alla qualità romanzesca e appassionata dei suoi altri lavori quello di Nichols.

Anche la premessa di Free State of Jones viene da un personaggio realmente esistito, Newton Knight, un contadino del Mississippi che, insieme a un gruppo di disertori dall’esercito confederato come lui e di schiavi in fuga, formò un battaglione di guerriglieri anti sudisti e (dato storicamente meno provato) una comunità razzialmente integrata nel cuore del bayou.

Nel 1948, il regista George Marshall aveva diretto per la Universal Tap Root, un film tratto dalla vicenda di Knight (come descritta nel romanzo omonimo di James Street), con Van Heflin, Susan Hayward e Boris Karloff. Free State of Jones è stato scritto e diretto da Gary Ross, regista del primo Hunger Games, dell’interessante ma stolido Pleasantville e dello stolidissimo Seabuiscuit.

Ross non è un autore d’inventiva formale o curiosità politica e, alle prese con questa fetta di storia Usa, le sue condivisibili, provatissime, credenziali «di sinistra» si rivelano più un danno che altro – il suo film affoga infatti una vicenda interessante e poco conosciuta, in un interminabile polpettone dal punto di vista convenzionalmente precotto, noioso e claustrofobicamente buonista.
Lasciato ai suoi peggiori istinti «method», ma senza il beneficio di una sceneggiatura come quella di True Detective e di un regista di polso come Cary Fukunaga, Matthew McConaughey è Knight – barba scura, il volto segnato, l’occhio spiritato – una figura che, nella sua foga quasi biblica, a tratti sfiora il ridicolo.

Confederato in cercadi un’anima, la trova nell’incontro con Moses (Mahershala Ali, il bravo attore di House of Cards e di Moonlight), uno schiavo in fuga piagato da un infame collare di metallo intorno al collo. Knight offre di aiutarlo a liberarsene e, in breve, diventa il capo di un’armata ribelle fatta non soltanto di sudisti bianchi e schiavi neri, ma anche di donne, abilissime con il moschetto.

A completare l’identità trovata del nostro eroe, e quest’utopia in cui tutti vanno d’accordo istantaneamente come se niente fosse (o come nell’edulcorata America post racial di un contemporaneo sogno liberal/naïve), arriva Rachel (Gutu Mbatha-Raw), una schiava liberata di cui Knight si innamora, e a cui dà un figlio. Con l’apparente benestare della sua prima moglie (Michelle Williams) che – dopo averlo perso di vista – viene e stabilirsi nella comunità ribelle, nella casa accanto alla sua, e gli offre i suoi servigi di baby sitter.