«Cambiare le regole del calcio per cambiare le regole del mondo. Questo è quello che si propone il Calciosociale», spiega Massimo Vallati ideatore e promotore di questa nuova visione dello sport più amato nel mondo, ma anche uno dei più grandi fenomeni di massa e di aggregazione. «Spesso il calcio, e il mondo che gli gira intorno, parla o dà esempi negativi, basti pensare alla violenza tra tifoserie o ai fatti di razzismo a cui spesso assistiamo, al business esasperato o alle partite truccate. Gli esempi negativi di come non ci si deve comportare in una collettività», prosegue, «iniziano già nelle squadre giovanili e questo perché nelle società calcistiche mancano la visione pedagogica e un percorso educativo strutturato, verificato e certificato. Il calcio invece ha delle potenzialità educative immense. Quindi, se riusciamo a togliere da questo sport tutto quello che non va, può diventare un grande motore di coesione e di crescita civile e sociale dell’intero Paese. Il Calciosociale», racconta Vallati, «permette l’integrazione fra diversi soggetti provenienti da situazioni di disagio e no, ragazzi con disabilità e normodotati, aiuta a sviluppare competenze sociali, metodologiche e personali per chi vi partecipa».

Utopia, forse. Sta di fatto che da quando nel 2005 il progetto prese avvio nel quartiere di Corviale a Roma, l’interesse nei suoi confronti è aumentato di anno in anno, tanto che ora è possibile praticarlo in altre città italiane – Modica, Empoli, Torino, Milano, Quartu S.Elena, tanto per citarne alcune – ma anche in Inghilterra, Germania, Ungheria. Molti sono anche i riconoscimenti che il progetto ha ricevuto. Nel 2012 Vallati è stato chiamato al Parlamento europeo per raccontare questa esperienza all’avanguardia in fatto d’integrazione e nel 2014 il Calciosociale è stato riconosciuto dal governo italiano come «best practice» per lo sport e l’inclusione sociale.

Vallati, come si interviene per migliorare il mondo del calcio?
Questa domanda me la sono posta nel 2004 quando facevo l’educatore in una parrocchia. Assistevo in continuazione a tornei di calcio che avevano le stesse dinamiche degli altri con violenze verbali e non solo. Proposi al parroco di organizzarne uno con delle regole diverse in modo da cambiare il clima in campo e possibilmente anche fuori dal rettangolo di gioco. L’idea conquistò i ragazzini tanto che da quattro squadre passammo in breve tempo a otto e così via sino a organizzare più di un torneo all’anno. Da questo successo scaturì l’esigenza di avere un campo e una sede per sviluppare ulteriormente il progetto con l’ambizione di realizzare l’«università» del Calciosociale aperto a tutti. Nel 2009 prese avvio «Campo dei miracoli», un luogo per i genitori che non possono permettersi per i loro figli di pagare centri privati o associazioni sportive per far praticare uno sport e allo stesso tempo un posto sicuro dove i ragazzi non solo si divertono ma iniziano un percorso di crescita personale fatto di valori positivi. Oggi «Campo dei miracoli» è frequentato da 300-400 persone a seconda dei progetti e l’età dei partecipanti va dai cinque ai sessant’anni.

Nel Calciosociale la prima diversità che si coglie è quella relativa al nome delle squadre…
Questa è una delle tante particolarità che abbiamo ideato. Ogni anno i nomi delle squadre sono legati a dei temi, per esempio: donne e uomini uccisi dalle mafie oppure gli articoli della costituzione legati ai referendum. Ciò serve per far riflettere i singoli e la squadra. In questo momento il tema scelto è la salvaguardia dell’ambiente attraverso donne e uomini che si sono impegnati in tal senso. C’è una squadra che porta il nome di Matilde Casa sindaca di un paesino del Piemonte che ha subito un processo per una delibera a difesa del suolo. Un’altra porta quello del capitano di marina Natale De Grazia ucciso per le sue indagini sul traffico di rifiuti tossici e radioattivi. L’educatore, sempre presente in ogni squadra, ha poi il compito di spiegare ai ragazzi ciò che ha fatto la persona, spesso sconosciuta, e di farli riflettere su ciò che anche loro possono fare sul tema della salvaguardia della natura. In altre parole: non c’è solo la partita da vincere, ma anche la battaglia, in questo caso, della difesa dell’ambiente. Questa è educazione civica.

…ma anche le regole di gioco seguono altre logiche.
Non potrebbe essere altrimenti. Per esempio, le partite non si giocano solo in campo, le squadre si sfidano anche in attività comunitarie accumulando così punti per la classifica finale. Non esiste l’arbitro, ma la corresponsabilità. I giocatori per riprendere la partita devono decidere insieme se è stato commesso un fallo oppure no. Le squadre sono miste, maschi e femmine assieme, e vi è anche la presenza di ragazzi diversamente abili. Ogni giocatore non può segnare più di tre goal a partita che tradotto significa attenzione per l’altro. Ogni squadra ha 12 componenti e non esiste la panchina, tutti sono titolari. Si gioca in 8 e i partecipanti fanno cambi ogni 10 minuti. Il calcio di rigore lo batte il giocatore con il coefficiente meno alto.

Un coefficiente? Ci spieghi meglio…
Prima di tutto faccio presente che tutte le regole sono finalizzate a favorire la cura delle relazioni, preferendole alla semplice competizione sportiva. La regola base prevede che le squadre debbano avere tutte le stesse potenzialità di vittoria. Per rendere concreta questa regola prima del campionato si fanno delle partite amichevoli e si danno delle valutazioni, coefficienti, da uno a dieci a tutti i giocatori. La somma dei coefficienti dei giocatori di ogni singola squadra deve essere uguale dando così a tutte la stessa potenzialità di vittoria e non come accade comunemente nel calcio che conosciamo che vince chi ha più fuoriclasse. La cosa che va sottolineata è che ogni squadra ha al proprio interno un educatore che interagisce con i giocatori.

Nel novembre del 2015 «Campo dei miracoli», a un anno dall’inaugurazione, è stato oggetto di un incendio doloso. Chi vi vuole male?
Con questo lavoro cerchiamo di togliere i ragazzi dalla strada e quindi pestiamo i piedi a qualcuno. Ma noi resistiamo, perché crediamo che questo serva a far crescere il quartiere nonostante tutte difficoltà che esso ha.

Da quel momento avete dato vita anche a una radio. Perché?
È stata la nostra risposta a chi non ci voleva nel quartiere. «RadioImpegno», questo è il suo nome, va in onda ogni notte in diretta streaming e su FM coinvolgendo singole persone, associazioni e artisti, tutti volontari, che raccontano la parte migliore della città. Un presidio anche nelle ore notturne in cui il controllo del territorio è lasciato in mano ad altri.

La Figc (Federazione italiana giuoco calcio) vi ha interpellati per qualche progetto?
Sì. Stiamo discutendo un protocollo d’intesa per portare la metodologia del Calciosociale nelle scuole calcio.