Il titolo originale francese di questo libro – «La communauté politique des tous uns’». L’edizione italiana ha come titolo La comunità politica (Jaca Book, pp. 400, euro 30) – usa un termine di Étienne de la Boétie difficilmente traducibile in italiano (si può forse proporre «tutti-unici»), che è al centro della riflessione di Miguel Abensour sull’utopia e sulla teoria del dominio.

IL FILOSOFO FRANCESE rivaluta i pensatori del socialismo utopico, da Leroux a Morris, che hanno proposto un’idea di società composta da singolarità irriducibili, capaci di riconoscersi nella differenza e in un processo aperto di persuasione reciproca. Secondo Abensour, Marx non ha mai sottovalutato il socialismo utopico, ma ne ha raccolto l’eredità, trasformandone le immagini di sogno in teoria politica dell’azione storica.

Certo, occorre preliminarmente una critica dell’astrazione, che riduce l’utopia al solo suo aspetto volontaristico e totalizzante. Per Marx, l’utopia astratta è quella non abbastanza radicale, che si appoggia solo a «determinazioni parziali» e lascia «sussistere l’essenza» del capitale: è astratta, perché la sua immagine della «buona vita» non scalfisce il dominio del danaro, dell’astrazione del capitale e dei suoi rapporti di padronanza, propone un falso possibile o un non possibile.

IL COMUNISMO CRITICO marxiano non nega l’utopia, ma «anziché far ruotare il movimento sociale attorno all’utopia, fa ruotare quest’ultima attorno al movimento sociale». L’utopia concreta non è solo contemplativa, un sogno offerto alla visione, ma «istigazione all’azione» rivoluzionaria, perché si oppone al regime del desiderio imposto dal capitale e immagina un’alternativa ad esso, come avvenne nella Comune di Parigi: «L’utopia è il luogo in cui si congiungono l’insurrezione del desiderio e l’insurrezione delle masse».

A una società di «tutti unici» (tous-uns) si contrappone quella dei tous-Un, tutti in Uno, che definisce – a partire da Hobbes – il movimento centrale della concezione moderna della sovranità. Questa forma limitante di comunità si fonda su una rete di rapporti di padronanza asimmetrici, su una ramificazione della relazione servo-padrone, che si dipana in «una totalità chiusa in se stessa, piramidale, unitaria, verticale e gerarchica». Abensour contrappone il legame all’ordine, come categoria centrale della politica. «Dalla contrapposizione tra il paradigma dell’ordine e quello del legame nascono due concezioni opposte».

L’ORDINE SUPPONE il movimento riunificatore dei molti verso l’Uno, mentre il legame richiede una condizione di pluralità e di accordo delle differenze. L’idea che l’azione politica sia un katechon, cioè che si giudichi in base alla sua efficacia nell’imporre un ordine al caos altrimenti ingovernabile della polis, è presente fin dal mito della caverna, raccontato da Platone nella Repubblica.

Secondo il commento di Hannah Arendt, nella caverna vivono gli abitanti della polis, abbagliati dalle apparenze e confusi dalle ombre, destinati quindi all’assenza di legame e al disordine. Il filosofo interviene dall’alto portando l’idea come strumento di misura e di calcolo: ordine come unificazione forzata di una moltitudine, di una plebe magmatica e caotica. Contro questa concezione, Abensour riprende il concetto di prossimità nel rapporto con l’altro, presente in Emmanuel Lévinas (un autore a torto confinato nella sola dimensione etica, e che invece Abensour recupera come pensatore intensamente politico, fin dal suo scritto giovanile sull’hitlerismo come male elementare).

È POSSIBILE L’UTOPIA dopo Auschwitz? Abensour pone questa domanda radicale, che riecheggia quella ben nota di Adorno a proposito della poesia. Essa è stata spesso fraintesa come un «divieto« di ogni espressione del trauma storico; ma un silenzio che lo lasciasse precipitare nella dimenticanza e nella rimozione sarebbe altrettanto pericoloso del suo travisamento spettacolare. Adorno voleva dire che non è più possibile la lirica «musicale», della tradizione e che ogni poesia deve portare iscritta dentro di sé la cicatrice, la distorsione, la durezza inespressiva del trauma, traducendo la dissonanza sul piano della forma: ogni espressione poetica «deve portare nella sua stessa fibra… la traccia della propria impossibilità».

UN DISCORSO simile può esser fatto per l’utopia. Ogni immagine di sogno deve trasformarsi in immagine dialettica e cioè serbare in sé «la traccia delle sofferenze inflitte, delle vite spezzate, annientate». L’utopia oggi possibile, non solo «dopo Auschwitz», ma anche dopo le guerre dei primi due decenni del secolo e il trattamento disumano dei migranti che il nuovo fascismo sta ponendo in essere in Europa, deve conservare memoria del dolore e il possibile deve portare in sé il segno doloroso dell’incompiuto. L’utopia concreta deve tener conto dell’esistenza del male elementale, che Levinas scorgeva nel fascismo e minaccia di riemergere nel nostro presente.