Alhassan ha 17 anni, quando è partito dalla Guinea per l’Europa era appena un ragazzino, in tasca nulla, nemmeno un telefono portatile, la prima volta che ha chiamato la madre lei non credeva nemmeno che fosse lui. Mentre racconta al suo giovane amico, un ragazzino francese, Louka, nei pomeriggi d’estate che passano insieme di averci impiegato oltre due anni per arrivare lì, il bimbo sembra incredulo. Green Boys è stato realizzato da Ariane Doublet, il racconto di un’amicizia che si alterna a quello alla prima persona di Alhassane: la burocrazia dei documenti, il passaggio da un centro di accoglienza all’altro, la violenza della polizia e delle istituzioni – «In Francia sei sempre colpevole di qualcosa» – ma anche alcuni incontri belli e importanti nel segno dell’accoglienza. Non è il solo film nella selezione francese di Cinéma du Reel a parlare dei migranti, anzi in quasi tutti la questione è posta al centro, a volte come una dichiarazione di urgenza, al di là pure della ricerca di una forma, quasi sempre come un interrogativo che a partire da qui si rivolge alla Francia stessa.

NON SI TRATTA più soltanto della relazione sempre irrisolta con le generazioni dei figli e dei nipoti dei primi migranti arrivati dalle colonie dopo le indipendenze o prima ancora, come gli algerini, prelevati come manodopera per la ricostruzione postbellica. Sono invece i migranti che transitano dalle frontiere del Mediterraneo, in fuga da guerre e da miserie, un movimento talmente potente di fronte al quale nessuna propaganda – delle destre – rappresenta una risposta. E che nei circuiti viziati di respingimento/clandestinità mette seriamente alla prova l’idea della democrazia.

È ancora la Francia il paese dei diritti dell’uomo? Viene da chiederselo dietro alle immagini quotidiane che compongono il diario di Paris Stalingrad (di Hind Meddeb e Thim Naccache), la caccia ai migranti accampati nelle tende del quartiere della capitale francese, la lotta per una sopravvivenza tutta da inventare nel punto di vista di un giovane poeta, Souleyman, fuggito dal Darfur, la cui voce si intreccia a quella narrante della regista: insieme costruiscono uno spazio del presente, lei nelle geometrie cittadine della marginalità, lui in quel cammino dei migranti, Libia, Calais, Ventimiglia, a cui il vissuto dà nuova consistenza. Si può accettare che qualcuno venga trattato in qualsiasi paese democratico a questo modo?

LA STORIA sposta ancora in là lo sguardo, è quella di Fouad, mentre parla con Pierre Michelon nella sequenza che apre Amara. In America – dice – un gatto somiglia a una pistola, ricordando la denuncia di una vicina contro suo figlio, un ragazzino, colpevole di essere andato a recuperare il gatto di casa vicino ai cassonetti dell’immondizia della donna. Ma l’incontro tra il personaggio Fouad e il regista, parte da altro, rimanda al nonno dell’uomo scomparso nella Guiana francese dove era stato imprigionato con l’accusa di avere rubato delle capre nell’Algeria ancora colonizzata dalla Francia.

Il figlio, padre di Fouad ne perde le tracce, il regista avvia oggi la sua investigazione dal Colorado, dove Fouad vive, all’Algeria. Il processo compone lentamente un profilo preciso – e terribile – di quello che è stato il colonialismo: non solo la sua superficie ma i segni propagati nel tempo, le conseguenze sociali, economiche, culturali, l’immaginario che Amara rivela a partire da un incontro, da una persona/personaggio, anche questa scelta di campo comune ai lavori visti in questi giorni. È un po come se il confronto col presente divenisse al tempo stesso archivio, materiale per una storia del contemporaneo, patrimonio di un futuro.

L’attualità dei volti di bambini filmati nel Libano della guerra civile da Jocelyn Saab – a cui il festival ha dedicato un ricordo – rimandano alla Siria di oggi (Les enfants de la guerre, 1976), dicono di un’«economia» della guerra che non è solo traffico di armi ma che lavora fino a essere la sola realtà possibile. Saab riusciva a attraversare Beirut sotto assedio quasi con leggerezza, fino a arrivare ai campi palestinesi di Arafat – magnifico il materiale in Lettre de Beyrouth. Un autobus come espediente narrativo riaccende una strana «normalità», la gente si incontra, va oltre le barriere anche se fuori ci sono i posti di blocco e le armi. La storia è anche questione di corpi, di volti, di sguardi, quelli dei giovanissimi combattenti e quelli degli amici della regista. Il futuro era già lì, ma quel presente lo illumina con maggiore chiarezza.