Le idee che muovono la violenza, che fanno di una nuova generazione di estremisti di destra da un lato dei possibili terroristi, dall’altro dei sostenitori, forse solo tragicamente più coerenti, di tesi che caratterizzano ormai da tempo il dibattito pubblico in gran parte delle società del pianeta. Mentre, allo stesso modo, la diffusione di questa nuova ideologia dell’odio si trasforma attraverso il web e i social in uno strumento per il reclutamento e l’organizzazione, per una «formazione quadri» che si svolge nell’era della politica individuale che spesso soppianta le piazze ricolme di un tempo con la radicalità profonda e irriducibile delle posizioni.

Quella condotta da Luca Mariani in Rete nera (Futura Editrice, pp. 294, euro 16) – che l’autore presenterà lunedì 28 dalle ore 18 al Libraccio di Roma (Via Nazionale 254), insieme a Padre Giulio Albanese, al segretario della Cgil Maurizio Landini e al parlamentare del Pd Walter Verini, modera Andrea Ferro – è un’indagine all’interno di quelle nuove forme del radicalismo di destra che si sono andate trasformando nel corso dell’ultimo decennio in una esplicita strategia di morte e terrore. Ma che muovono in molti casi da una «visione del mondo» ben presente nel mainstream politico.

Un sistema di «porte girevoli», perlomeno sul piano delle idee, che Mariani fa emergere svolgendo il percorso della sua ricerca a partire dai testi diffusi da due dei maggiori killer razzisti degli ultimi anni: il norvegese Anders Breivik, autore, il 22 luglio del 2011, tra il centro di Oslo e l’isola di Utoya, di una strage che ha fatto settantasette vittime e il neozelandese Brenton Tarrant che il 15 marzo del 2019 ha attaccato due moschee di Christchurch uccidendo cinquanta persone. In entrambi i casi, gli assassini avevano postato o inviato a forum online o a un indirizzario di possibili «estimatori» delle loro gesta degli autentici «manifesti politici», quello di Breivik superava le 1500 pagine: materiali attraverso cui i killer rivendicavano la loro qualità di «combattenti» nell’ambito di un conflitto ben più ampio e articolato.

DEFINENDO LE COORDINATE di quella che appare come una «guerra razziale» di tipo nuovo, l’autore segnala infatti che figure come Breivik e Tarrant hanno nutrito il loro immaginario di morte delle medesime tesi sul grand remplacement, la «sostituzione di popolo» che a detta delle nuove destre europee, nel nostro Paese un asse che da Lega e Fratelli d’Italia arriva fino a Forza Nuova e Casa Pound, sarebbe la chiave di lettura complottista dei fenomeni migratori. Allo stesso modo, ritorna tutto il repertorio di denuncia dell’islamizzazione e della decadenza dell’Occidente, di perdita dei valori tradizionali, ad iniziare dalle gerarchie di genere, del rischio che ogni identità vada distrutta a fronte di un uniforme multiculturalismo che da tempo costituisce l’odioso rumore di fondo del dibattito globale.

MA, A RIPROVA del fatto che Mosca si sia progressivamente trasformata nella stella polare del pensiero di destra internazionale, è la Russia di Putin a rappresentare in questo quadro «il faro che illumina». Breivik, annota Mariani, «la cita più di trecento volte nel suo manifesto», indicando nel partito putiniano Russia Unita e in organizzazioni giovanili pro Cremlino come Nashi e Molodaya Gvardiya, gli alleati dei nazionalisti bianchi d’Occidente che proprio ad est dovranno guardare d’ora in poi.

Del resto, anche Tarrant, per il quale esponenti dell’emigrazione russa in Australia avevano citato possibili contatti con i neonazisti ucraini in Donbass (il manifesto, 17 marzo 2019), dal carcere in cui è detenuto scriverà una missiva destinata ad un «conoscente» in Russia. «È un caso che la lettera sia stata invita proprio lì?», si chiede Mariani, prima di aggiungere come «per alcuni esperti si tratta di una vera e propria chiamata alle armi». La diffusione della lettera è dei primi di agosto del 2019, quando si registrano due attacchi armati dei razzisti, la strage di El Paso, con 23 morti, e l’assalto ad una moschea di Oslo che uccide una persona.

A chiudere il volume, due lunghi colloqui dell’autore rispettivamente con Padre Giulio Albanese, già direttore di Misna, e con Jorgen Watne Frydnes che dirige le iniziative che hanno luogo sull’isola di Utøya.