Uovo alla coque, sodo e alla Benedict, fritto o strapazzato, frittata… l’uovo è un soggetto «nutriente» per gli artisti di tutti i tempi, sicuramente per Piero della Francesca che nella Pala di Brera (1472-74) lo associa alla conchiglia come simbolo di perfezione divina, quanto a Hieronymus Bosch nel Concerto nell’uovo (1500-1516 ca.) ne fa un contenitore per racchiudere la sua satira alchemica. Due artisti del passato molto amati (e citati) da quelli contemporanei, tra cui Tomaso Binga (Bianca Pucciarelli Menna) nell’enigmatica serigrafia Ritratto Analogico per F. M. (1972) dedicata al consorte Filiberto, con l’uovo e la gestualità delle mani in primo piano.

Surrealisti
È simbolo di fecondità, certamente, così come di perfezione, fragilità e universo intrauterino proprio per via dell’ambiguità dell’esterno duro e dell’interno molle. Anche per questo lo ritroviamo nell’opera di Duchamp e dei Surrealisti – Salvador Dalì pone grandi uova sia sul tetto della casa-museo di Port Lligat che all’esterno del teatro-mausoleo a Figueres, insieme alla forma reiterata del pane catalano a tre punte – recuperato e reinterpretato anche da Luca Maria Patella e Rosa Foschi che nelle sue polaroid lo utilizza insieme alla parola dream. «È nato prima l’uovo o la gallina?», domanda retorica seguita da detti che hanno a che fare con l’uovo, come «cercare il pelo nell’uovo», «essere pieno come un uovo», «rompere le uova nel paniere». Si oscilla tra il senso di sazietà e l’impossibilità, arrivando alla sfida dell’uovo di Colombo e alle allusioni sull’avidità come nella favola di Esopo La gallina dalle uova d’oro che sollecita il ricordo del valore (non solo nutrizionale) di questo alimento.

Africa
Anche nei coloratissimi tessuti africani wax printed (che propriamente africani non sono, perché frutto dell’eredità coloniale che li ha importati in Africa Occidentale ai tempi dell’industrializzazione) la sagoma della gallina con le uova è un emblematico pattern che mostra lo status sociale di chi lo usa per cucirsi l’abito, sinonimo quindi di un certo benessere. L’uovo come bene prezioso è testimoniato dalle uova di Pasqua Fabergé, realizzate tra il 1885 e il 1916 per la sfortunata dinastia Romanov ed è altrettanto ricorrente nell’ossessione di un George Orwell (in versione agricoltore) durante il faticosissimo mezzo anno trascorso per motivi di salute, tra il 1938 e il ’39, a Marrakech e dintorni. Nei Diari dal Marocco lo scrittore annota giorno dopo giorno: un uovo, due uova, tre uova, arrivando raramente a quattro. Un quotidiano benessere garantito a lui e alla moglie Eileen proprio grazie alla produzione delle loro galline. Il 31 dicembre scrive: «Tre uova. (Sono centodue uova dal 26 ottobre, quasi una dozzina alla settimana)». Ma torniamo alla fascinazione per l’uovo, in particolare fritto, di Sarah Lucas, eterna bad girl dell’arte contemporanea che in Self Portrait with Fried Eggs (1996) gioca sugli stereotipi assumendo una posa da macho ma ostentando due uova fritte sulla t-shirt all’altezza dei seni. Anche la fotografa giapponese Mitsuko Nagone lo scova in cucina, come fa con altri cibi e utensili che nella serie New Self, New to Self (2009-2014) diventano elementi fondamentali del suo travestimento, restituendole la libertà di essere sé stessa fuori dagli schemi tradizionali di genere.

Fotografia
Che dire poi di Elliott Erwitt, grande interprete dell’agenzia Magnum che ai cani ha riservato la stessa considerazione che nutre per gli uomini, sottolineandone persino le qualità «umane». Per attirare la loro attenzione e poi fotografarli, Erwitt ha sempre con sé un kit che include l’uovo fritto di plastica, lo stesso che si appunta al bavero della giacca. La componente ludica è decisiva nel consegnare l’icona-uovo all’eternità, proprio come il cibo in scatola o la più famosa banana per il padre della pop art che lo ripropone nelle sue polaroid, certamente in Eggs (1982). Oltre a Andy Warhol anche i fotografi Edward Weston, Josef Sudek, Irving Penn colgono l’essenza della sua forma, sia con la pellicola in bianco e nero che a colori, rincorrendo le ombre nell’incidenza della luce sulla sua superficie ovale. La raffinatissima Imogen Cunningham (con Weston faceva parte del californiano Group f/64) nella rara immagine a colori Five Eggs (1951), costruisce uno still life con cinque uova, un filo di corda e un foglio ripiegato su cui si legge la scritta «eggs». Con i gusci di diverse tonalità, l’autrice dà un tocco di poeticità alla prevedibilità di una scena quotidiana. Giocosamente ironica, poi, la foto di Sian Bonnell che nella serie House Beautiful #15 (2005) «tesse» il set di tappeti da bagno con tante uova fritte, mentre lo sguardo caustico di Martin Parr indugia sull’uovo della colazione degli inglesi e degli americani, con contorno di bacon e chips o anche solitario al centro della fetta del pane tostato. Per il fotografo inglese la fotografia è sempre strumento di riflessione critica sulla società, in questo caso è emblematico l’aver associato l’uovo al junk food (il libro pubblicato da Phaidon s’intitola Real Food), specchio di un disagio generazionale che trova nel cibo l’elemento consolatorio.

O’Keeffe
Esattamente all’opposto del cibo sano di cui si nutriva Georgia O’Keeffe in New Mexico. Quella della pittrice era una cucina spartana in cui la sua creatività di artista veniva prestata anche al cibo, sia nella preparazione che nell’allestimento della tavola. «Eggs Florentine» era uno dei suoi piatti preferiti per la prima colazione estiva: un letto di spinaci su cui venivano adagiate le uova, cotte solo per qualche minuto con l’aggiunta, eventualmente, di pepe fresco. Nella copertina del libro A painter’s kitchen. Recipes from the kitchen of Georgia O’Keeffe la foto in bianco e nero ritrae l’artista con uno sguardo sornione mentre, con una mano sul fianco, mescola il cibo nella pentola. Era anziana almeno quanto Nonna Papera nel Manuale (oggi cult) di ricette che porta il suo nome (la prima edizione italiana è del 1970), dove alla U troviamo «uova al biscotto» e «uova e patate sotto la cenere». Per la seconda ricetta il cuoco in erba veniva avvisato fin dalle prime righe che bisognava possedere un caminetto o avere la possibilità di accendere un fuoco in giardino senza pericolo. In un certo senso bisognava far attenzione a non «calpestare le uova», a proposito, nel 2003 Aldo Mondino prende in prestito questo modo di dire per il suo tappeto-mosaico.

La smorfia
La cultura popolare ricorre spesso alla simbologia dell’uovo, soprattutto nei sogni con cui si tenta di decifrare la realtà. Nella smorfia napoletana, ad esempio, «rompere uova» vuol dire dispiaceri e corrisponde al numero 45, mentre uova fritte = egocentrismo = 4. Poi ci sono uova sode = buoni rapporti sentimentali = 23; cuocere uova = sentimenti sinceri = 57; uova fresche = ottime occasioni = 71 e via di seguito. La fragilità e la precarietà (ben oltre la rappresentazione della rottura fisica del guscio delle uova) diventa quasi un leit motiv per Bertozzi & Casoni (Giampaolo Bertozzi e Stefano Del Monte Casoni), interpreti della natura morta moderna anche in chiave di memento mori nelle loro straordinarie creazioni in ceramica policroma, a partire da Uova (2005) fino a Colazione con uova (2019). Mentre è una sfida contro l’impossibile il tema affrontato in Walking on Eggshells (1997) da Sandy Skoglun, che nella sua pratica realizza artigianalmente le scenografie prima di affidarle all’eternità attraverso lo scatto fotografico: tema ripreso dalla più giovane JeeYoug Lee in Broken heart (2011) in cui la figura femminile alle prese con problemi esistenziali, fotografata di spalle all’interno di una stanza, sta per lanciare un uovo contro la parete.

Impronte
Però l’uovo più celebre dell’arte contemporanea è quello sodo di Piero Manzoni con gli esemplari firmati con l’impronta del suo pollice, conservati tra la bambagia nella scatola di legno. Varianti della performance Consumazione dell’arte dinamica del pubblico divorare l’arte durante la quale, il 21 luglio 1960 alla Galleria Azimut di Milano, l’artista firmò circa 150 uova sode che furono ingurgitate dagli intervenuti in un allegorico consumo rituale (e anche un po’ religioso) dell’arte. Bastarono 70 minuti per inghiottire un’intera esposizione, come affermò lo stesso Manzoni.