Nelle due note su «Utopia» di Tommaso Moro che precedono questa terza, ho inteso mettere in evidenza un essenziale carattere di quel celebre libro: Utopia è una combinazione di parole pronunciate dalla viva voce di Raffaele Itlodeo che ci è possibile ascoltare, a nostra volta, con Moro, perché Moro ce ne ha conservato e ora ci offre la registrazione scritta. Il testo di Moro non solo non si intende, ma si fraintende senza rimedio, se non si è avvertiti e non si tiene conto delle complesse relazioni che la tradizione filosofica platonica indaga e scevera nel ragionare di parola e verità – da un lato – e – da un altro lato – di parola e realtà.

Il racconto di Raffaele, che è andato per mare «come Ulisse, come Platone», mostra che la verità è in ciascuna parola, verità attestata dal mero fatto d’essere, quella parola, qui pronunciata e accolta. Così insegna un antico autore caro a Moro (e a Erasmo), Luciano di Samosata nella sua «Storia vera«. Vera perché, semplicemente, raccontata, riferita, detta. Utopia, in quanto detta è vera nella verità delle parole proferite. Vere le sue insenature turchine e i suoi gialli campi di grano; vere le sue cinquantaquattro linde e ben disegnate città; vere le consuetudini e le regole alle quali i suoi sobri e felici abitanti si attengono e vero il costrutto politico-statuale che da mille settecento sessanta anni afferma «l’ideale di richiamar tutti i cittadini, quanto più tempo è possibile, per quel che consentano le necessità pubbliche, dalla servitù del corpo al culto e alla libertà dell’anima (“ab servitio corporis ad animi libertatem cultumque”). In ciò infatti consiste, secondo loro, la felicità della vita».

Osseviamo che le letture ingenue e più frequenti di «Utopia» – e i numerosi luoghi comuni che han generato – per lo più sono rivolte a valutare quanto auspicabile – realistica o illusoria – sia l’attuazione di quella società o, al contrario, quanto sia da evitarsi e come quel sistema debba, nei medesimi principi, esser combattuto. Un dispositivo, un congegno da recepire o annullare. Irrealtà e realizzabilità di Utopia, essi contendono. Ma, come riferisce Raffaele, a un solo scopo è volto il «parlamento» su Utopia: come alleviare l’onere della fatica materiale intesa al benessere fisico per afferire alla coltivazione delle libertà dello spirito, dell’anima. Il corpo e l’anima di ciascuno di noi, vivi in questo mondo. Qui sta il nesso che àncora e lega la parola vera di Utopia alla effettuale realtà che ciascun uomo è.

Moro mostra così di aderire al lascito de «La Repubblica» di Platone che vuole l’uomo «assennato, l’uomo consapevole», tenere nel corso della sua vita in pregio ed alimentare «le discipline» che elevano l’anima: «con l’intelligenza, temperanza e giustizia», in un corpo «che con la salute prende vigore e bellezza». Vive dunque la propria vita «intento a realizzare l’armonia nel corpo per creare il perfetto accordo nell’anima». Questo uomo reale, questo concreto singolo uomo è chiamato da Moro (e da Platone) a fondare se stesso come Utopia, ovvero ad esercitare entro di sé la cittadinanza d’uno stato. Dice Glaucone a Socrate: «ti riferisci a quello stato di cui abbiamo discorso ora, mentre lo fondavamo: uno stato che esiste solo a parole, perché non credo che esista in alcun luogo della terra». E Socrate: «ne esiste un modello, per chi voglia vederlo e con questa visione fondare la propria personalità. Del resto non ha alcuna importanza che questo stato esista oggi o in futuro, in qualche luogo, perché (l’uomo reale, vivo) svolgerà la sua attività politica soltanto in questo, e in nessun altro».