«Fuori dal coro» è il titolo dato da Callisto Cosulich a uno scritto dei primi mesi del 2001 su Bianco e Nero in cui parlava del terzo e ultimo film di Raffaele Andreassi, I lupi dentro, insieme a La seconda ombra di Silvano Agosti e Il temporale di Gian Vittorio Baldi. Il critico triestino, che aveva collaborato già per il film-inchiesta L’amore povero (primo film del regista distribuito tagliato e con il subdolo titolo I piaceri proibiti nel 1963) ribadiva quanto detto più di trenta anni prima da Cannes, dove il secondo lungometraggio, Flashback, di cui Cosulich è cosceneggiatore, era l’unico film italiano presente nel concorso del 1969, quando aveva definito Andreassi «un autore isolato».

Isolamento e marginalità segnano l’opera e la vita (cinematografica) di Raffaele Andreassi, ma va aggiunta anche l’unicità di un’opera che attraversa la seconda parte del secolo scorso e ne registra le mutazioni; una filmografia frammentata, composta da centinaia di cortometraggi, tante inchieste, spot, servizi per la TV e solo quattro lungometraggi di cui il primo, Faccia da mascalzone (1955, tratto da Racconti romani di Moravia e cofirmato con l’inglese Lance Compfort) risulta irreperibile. Basta tuttavia la visione, oltre che dei lungometraggi, di una ventina dei suoi corti realizzati fra il 1955 (il primo reperito è Gli uomini del sale) e il 1969 (L’orizzonte) – i successivi mediometraggi sull’arte sono in genere meno interessanti, già troppo contaminati da tecniche «televisive» – per imporre il nome di Andreassi all’attenzione. 

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Rispetto alla produzione cortometraggistica dell’epoca, la sua si distingue per rigore formale, assenza o riduzione all’essenziale di voce fuori campo e musica, presenza di voci e suoni d’ambiente registrati in diretta. Lo stile è improntato a una ricerca, attenta anche se discreta, della giusta composizione dell’inquadratura, animata spesso da panoramiche e carrelli, che apparenta Andreassi alle ricerche di Antonioni e Zurlini.
Colpisce il suo vagabondaggio attraverso ogni regione della penisola alla scoperta di realtà «minori» trasfigurate, quasi bloccate nel loro tempo e nel loro spazio, da una macchina da presa insieme partecipe e distanziata. La realtà, anche quando colta in presa diretta, è sempre una realtà messa in scena. Tipici in questo senso sono certi momenti di Ligabue al lavoro (in Lo specchio, la tigre e la pianura, 1960, e Antonio Ligabue pittore, 1965), in cui il pittore sottopone la realtà a una trasformazione non dissimile, nel procedimento più che nello stile, da quella operata dal regista con le sue inquadrature. Ancora più emblematico, quasi programmatico, è il confronto congiunto, nel bellissimo Agnese (1961), fra il ritratto di una modella fatto dal regista e quello fatto da De Chirico.

Non sorprende l’oscillare di Andreassi tra documentario – I fidanzati (1957), Lettera dalla provincia (1960), Bambini (1960), Amore (1965), Gli animali (1965) – e finzione – Mezzafaccia (1959), Epilogo (1960), Tornare all’alba (1962), La città calda (1962) – poiché per lui non c’è realtà che non suggerisca una forma. Il suo sguardo costruisce, attraverso le tessere dei vari cortometraggi, un universo personale e coerente, pudico, crepuscolare, fatto di cose sussurrate, di malinconia trattenuta, di silenziosi dolori, con una tensione latente all’astrazione che diventa esplicita in film come Risveglio (1957), Il silenzio (1964), L’orizzonte (1969).

Nei suoi film sull’arte, soprattutto su contemporanei italiani visitati spesso nel loro ambiente, colti al lavoro, fatti parlare (Giorgio De Chirico, Francesco Messina, Gregorio Sciltian, Lorenzo Viani, Ottone Rosai, Sante Monachesi, Primo Conti, Antonio Ligabue, Giovanni Omiccioli, Bruno Rovesti, Amedeo Ruggiero, Enrico Baj, Massimo Campigli, Bruno Cassinari, Alik Cavaliere, Giuseppe Cesetti) c’è, al confronto, maggiore impulso a «documentare» (con risultati eccezionali nei film su Ligabue, un artista che Andreassi ha contribuito a far scoprire) anche se le loro opere vengono sottoposte a uno smontaggio analitico dove ritorna il gusto per l’astrazione (il suo film più esemplare è in questo senso Alternative attuali, 1966).

Andreassi è morto a novembre del 2008, e grazie soprattutto alle ricerche nei materiali del regista depositato da lui stesso presso la Cineteca Nazionale su invito di Adriano Aprà (il maggiore studioso e divulgatore dell’opera di Raffaele con Paola Scremin, l’Officina Filmclub e Cosulich) sono tornati alla luce diversi lavori invisibili da decenni. Gli omaggi di Bologna, Cinema Ritrovato 2012, e Trieste, I mille occhi 2014, hanno contribuito, insieme alle ricerche negli archivi RAI di Ciro Giorgini e Paolo Luciani che hanno curato diverse notti su Fuori Orario, a inserire il nome di Andreassi nelle storie del cinema italiano. Dopo Flashback, restaurato da Sergio Toffetti nel 2008 e presentato al festival di Venezia nella rassegna Questi fantasmi, anche L’amore povero, in una versione digitale non originale ma sicuramente più completa e rigorosa de I piaceri proibiti, è stato proiettato al Cinema Ritrovato 2015 e sarà al museo del cinema di Vienna il 27 gennaio.

«Fuori dal coro: il cinema di Raffaele Andreassi», la rassegna del Cinema Trevi che avrà cadenza mensile è un’occasione per scoprire l’opera di un cineasta «fuori norma» a partire da quella sorta di summa della sua opera di documentarista d’arte che è I lupi dentro: tre ore sui pittori naïf della bassa padana, dove utilizza anche estratti di alcuni suoi cortometraggi degli anni ’50 e ’60, come quelli su Ligabue e Rovesti che chiudono la giornata. Ma come ha scritto Aprà «non contentiamoci dunque di retrospettive, ma di prospettive per ribadire il nostro ’altro’ cinema. A futura memoria».