È un’evidenza quotidiana quella per cui in ogni essere umano sia presente una parte animalesca più o meno in attività a seconda delle circostanze. Eppure, quando in Lamb questo assunto si esplicita in immagine, non possiamo che provare un misto di ribrezzo e curiosità di fronte alla figura di Ada, metà pecora metà bambina, adottata dalla coppia di allevatori protagonisti del film.

Per Valdimar Jóhannsson, islandese nato nel 1978, questo è il primo lungometraggio e arriva dopo un lungo periodo di studi, in particolare alla «film factory» di Béla Tarr a Sarajevo. «Ci veniva chiesto di realizzare un film che avremmo desiderato vedere ma che non avevamo ancora visto, quasi come se lo facessimo solo per noi stessi» racconta Jóhannsson, raggiunto su zoom, a proposito di quella esperienza. Un approccio personale evidente in Lamb, in questi giorni in sala, nel quale emerge un’idea di regia che lavora fortemente sulla tonalità emotiva delle immagini.

La relazione tra essere umano e animale è un tema portante del film, come l’hai affrontata?
Gli animali hanno una percezione migliore della nostra, capiscono quando qualcosa sta accadendo prima di noi umani. Il personaggio di Ada riunisce il meglio di entrambi, potremmo dire. Volevo che nel film ci fossero più punti di vista: attraverso quello animale, possiamo notare alcuni aspetti che i due protagonisti umani, Maria e Igvar, non riescono a vedere. Spesso attribuiamo alle altre specie sentimenti e pensieri simili ai nostri, è anche per questo che ho deciso alla fine di non far parlare Ada, al contrario di quanto avevo pensato inizialmente.

Potremmo dire che «Lamb» è anche un film sulla diversità, nonostante il tema sia trattato in maniera decisamente non convenzionale?
Non era programmato, ma quando abbiamo lavorato alla sceneggiatura abbiamo parlato molto di accettazione, di adozione, di cosa serve per essere una famiglia, di quale sia il ruolo della relazione di sangue. Non sono questioni trattate esplicitamente ma sicuramente guardando il film emergono queste domande.

Ada fa venire alla mente figure mitologiche in cui umani e animali si uniscono, c’è però anche un evidente aspetto cristologico, rafforzato dal finale. Come hai lavorato su questi elementi della tradizione?
C’è senz’altro un legame con le leggende popolari del mio Paese e non, in cui ricorrono degli elementi. In alcuni di questi casi c’è un innegabile rapporto con alla religione. Ma preferisco lasciare aperta l’interpretazione, non far derivare la storia o i personaggi da una fonte specifica, in modo che il pubblico possa fare una sua autonoma lettura del film.

Realizzare tecnicamente il personaggio di Ada non deve essere stato facile, quali procedimenti avete utilizzato?
È stata una grande sfida, sono stato fortunato a lavorare con un bel gruppo. Abbiamo girato ogni scena prima con delle marionette, poi con i bambini, circa una decina in totale, e infine con gli agnelli, complessivamente quattro. Abbiamo anche dovuto aspettare che gli agnelli crescessero insieme a Ada, perché abbiamo usato gli stessi all’inizio così come alla fine del film.

Conoscevi già la location?
No, ho girato l’Islanda in macchina almeno un paio di volte cercando la fattoria che avevo in mente, ne avevo addirittura realizzata una di argilla. Quella che si può vedere nel film è molto diversa da come l’avevo immaginata, ma essendo vuota da circa venti anni abbiamo avuto piena libertà. Trascorrere lì un mese è stato bello, e anche spaventoso. Per essere il mio primo film poi gli attori sono stati molto professionali, c’è stata subito una grande fiducia.

Frequentare la scuola di Béla Tarr, anche produttore esecutivo di «Lamb», ha influenzato la tua idea di regia?
Quando l’ho iniziata nel 2013 lavoravo già sul copione di Lamb, ero alla ricerca di consigli su come realizzare il film. Béla Tarr è riuscito a radunare un gruppo di registi fantastici, ognuno aveva un approccio diverso e ci siamo sicuramente influenzati a vicenda. Béla ci incoraggiava ad essere totalmente onesti con noi stessi e a trovare un modo personale per fare ciò che volevamo veramente. Per me l’immagine è molto importante, credo che sia innanzitutto lì che vada raccontata una storia al cinema. I dialoghi non sono indispensabili, le cose possono essere semplicemente mostrate invece che dette. Per questo sin dall’inizio ho deciso di ridurre le battute al minimo. In compenso, ho collezionato una gran quantità di foto e materiali, e ho poi trascorso mesi a disegnare l’intero film come in un grande storyboard. Questo mi ha aiutato molto, infatti le inquadrature erano piuttosto pianificate, anche perché lavorando con animali e bambini era importante avere dei punti fermi, visto che altri elementi sarebbero stati imprevedibili.