Quindici Luglio, ore 22.45, Roma. Enrico Mentana su La7 commenta il discorso del premier davanti ai gruppi parlamentari del Pd: «Renzi è nato nel 1975, l’anno in cui appariva il film Amici Miei, in cui venne coniata la locuzione ’supercazzola’ per dire parlare tanto per non dire molto… Nella sostanza non ha affrontato né l’Italicum né la riforma del senato. I contenuti non ci sono».
15 luglio, ore 10.30, Strasburgo. «Dico ai governi resistete più spesso alle tentazioni di critica quando ritornate nelle vostre capitali rispetto a decisioni che avete preso assieme a Bruxelles». Così il neo presidente della Commissione Juncker ammoniva i leader europei nel suo discorso di insediamento.

Probabilmente Juncker si riferiva anche al nostro presidente del consiglio che prima e dopo il vertice di Bruxelles del 26-27 giugno aveva ottimisticamente annunciato la fine dell’austerità. «Svolta Merkel, Patto UE più flessibile» titolava La Repubblica il 24 giugno scorso.

Entriamo nel merito. Juncker nel discorso ha fatto tre dichiarazioni contraddittorie:

  1. trasformare il ventinovesimo Stato Membro dell’Unione, dove abitano i disoccupati, in un normale Stato Membro;
  2. entro febbraio 2015 mobilitare 300 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati (Bei? Project Bond?) in un pacchetto «per la crescita e il lavoro»;
  3. «Tutto deve svolgersi in modo conforme al Patto di Stabilità…ci sono margini di flessibilità e vanno usati».

Questa terza affermazione, significativamente pronunciata in tedesco, nega la possibilità di investire e quindi creare lavoro. Infatti per creare nuova occupazione occorre investire; per realizzare gli investimenti gli stati devono spendere: di conseguenza occorre cambiare il Patto di Stabilità. Renzi avrebbe dovuto votare Juncker solo ad una condizione: cambiare precisamente i Trattati Ue. Solo così l’Italia avrebbe potuto varare un programma per lo sviluppo e uscire dalla crisi.

I 28 leader europei hanno approvato il 27 giugno il documento Strategic Agenda for the Union in Times of Change dove si parla di «buon uso della flessibilità» all’interno dell’esistente Patto di Stabilità.

È la fine dell’austerità? Assolutamente no. L’Italia sull’allentamento del Patto di Stabilità non ha ottenuto nulla perché il riferimento al «buon uso della flessibilità» è slegato dall’applicazione delle famose «regole auree» previste all’art. 126, par. 3, del Trattato di funzionamento della UE (Tfue); le golden rule rafforzate dal Fiscal Compact (in vigore da gennaio 2013) sono i quattro principi fondamentali dell’austerità:

  • l’impegno ad avere un bilancio pubblico in pareggio (in equilibrio) o in avanzo (positivo). È ammesso un disavanzo (deficit) strutturale fino allo 0,5 % del Pil per chi ha un rapporto debito/Pil inferiore al 60%;
  • il rapporto deficit/Pil deve stare sotto il 3%;
  • salvo casi eccezionali è attivato automaticamente un meccanismo di correzione per lo stato che sfora;
  • inserimento del Fiscal Compact negli ordinamenti degli Stati Membri, preferibilmente in Costituzione: l’Italia è stata «più realista del re» trasformando il preferibilmente in necessariamente.

Qual è dunque il margine di flessibilità esistente? Scarso: il Protocollo n. 12 allegato ai Trattati Europei sulla procedura sui disavanzi eccessivi (come sforamento tetto 3%; rapporto debito/Pil sopra il 60%) ammette scostamenti a condizione che: il superamento del 3% sia eccezionale e temporaneo; il rapporto disavanzo pubblico/Pil diminuisca in modo sostanziale e continuo; il rapporto debito pubblico/Pil si stia avvicinando in modo adeguato al valore di riferimento del 60%.

Solo grazie a questa locuzione l’Italia nel 1998 entrò nell’euro poiché su un piano meramente contabile il rapporto debito pubblico/Pil già allora era pari al 121,6%. Ma se ora siamo al 135% sarà impossibile avere margini di flessibilità.

Quali sanzioni rischiamo? La Bei potrebbe interromperci i prestiti oppure il Consiglio Ue potrebbe chiederci di costituire un deposito infruttifero a Bruxelles fino allo 0,3 % del PIL (4,8 miliardi di euro circa) per ogni punto di sfondamento del 3%. L’unica eccezione contemplata è che Bruxelles riconosca che l’Italia è in una grave recessione.

Questo Renzi dovrebbe chiedere chiaramente a Juncker in cambio della sua elezione: la Commissione riconosca la recessione, scriva precisamente le deroghe al Patto di Stabilità, consenta di sforare il tetto del 3% e di posticipare il pareggio di Bilancio.

Forse non a caso, nel discorso di martedì sera il Premier ha riconosciuto che la ripresa non c’è. E ha annunciato che questa estate sarà nei luoghi dove la crisi morde di più: Termini Imerese, Taranto, Gela, Gioia Tauro, Scampia, Secondigliano, Pompei, Piombino, L’Aquila, il Sulcis e Piombino. «Sui fondi Ue sono stanco di sentire pacchetti di critiche della Commissione Europea… su questo ha ragione la Commissione…», ha aggiunto Renzi.

I fondi Ue sono un argomento apparentemente lontano ma in realtà strettamente legato alle visite del premier al Sud e al rapporto con Juncker: ai disoccupati e cassintegrati dovrà offrire una speranza: tale speranza diventerà realtà solo se il governo spenderà bene i 110 miliardi dei programmi cofinanziati dai fondi europei in un piano per lo sviluppo e il lavoro (26,4 miliardi del vecchio ciclo 2007-2013 e 84,2 miliardi del ciclo 2014-2020).
Per farlo sono necessarie due cose: contrattare con Juncker l’esclusione dal 3% (deficit/Pil) del cofinanziamento italiano ai programmi Ue; una seria riprogettazione del sistema produttivo. Solo così Renzi potrà andare a Gioia Tauro e Gela a dire: questo è il mio piano del lavoro, usciremo dalla crisi.

Altrimenti in Europa c’è solo l’austerità della Merkel, in Italia il «vuoto» di Amici Miei.

* Esperto Fondi Strutturali Europei