Che la mostra proposta da Fondazione Prada nella sede di Palazzo Corner di Venezia sia una mostra in cui non si è chiamati solo a guardare, lo si capisce subito, appena arrivati al primo piano nobile. Usciti dalle scale, ci si trova in un ambiente con cinque porte chiuse. Non ci sono indicazioni: sta a noi scegliere quale aprire e immergerci nel percorso. Se si apre la porta di fronte a destra, ad esempio, si entra in una sala dove sono state raccolte tutte le versioni dei quadri che Angelo Morbelli dipinse nell’arco della sua vita al Pio Albergo Trivulzio di Milano. Nella serie di opere non manca quella più iconica, Giorni… ultimi (1882). Apparizione inaspettata. Immagini piene di pietà, rappresentazione di un’umanità sulla soglia. L’allestimento della sala è stato curato da una dei tre protagonisti della mostra, Anna Viebrock, la più influente scenografa e costumista del teatro in lingua tedesca. Un occhio molto allenato coglierebbe nel soffitto un richiamo al soffitto dell’Hamburger Banhof, il museo di arte contemporanea di Berlino, di cui è direttore Udo Kittelmann.
Era stato proprio Kittelmann ad avere l’idea di mandare al gruppo di lavoro che stava lavorando al progetto per la mostra di Palazzo Corner questa immagine via mail. Un progetto che verteva sul versetto, di impronta shakespeariana, di una canzone di Leonard Cohen: The boat is leaking The capitain lied. L’idea insolita era quella di ricreare quella situazione, che era poi evidente metafora di una situazione storica attuale: il mondo imbarca acqua, ma chi lo guida mente. Oltre ad Anna Viebrock, l’immagine del quadro di Morbelli è stata recapitata agli altri due personaggi che Kittelmann, da curatore, aveva chiamato al progetto: lo scrittore e regista Alexander Kluge e Thomas Demand, artista e affascinante innovatore nel campo della fotografia.
Su quell’immagine di Morbelli si è creato un equivoco, come racconta Kittelmann nell’introduzione al catalogo: gli anziani in attesa sulle panche sono stati scambiati per marinai non più in servizio che trascorrevano la loro vita in un ricovero. «Un malinteso, un errore di navigazione», scrive Kittelman; un errore che ha dischiuso uno spazio inatteso di riflessione. «Un’immagine, una metafora che hanno avuto una sorte analoga al varo di una nave». Così il destino ha voluto che tutto il ciclo di Morbelli tornasse a Venezia, dove l’artista l’aveva esposto nel 1903 in occasione della Biennale. E soprattutto ha voluto che queste immagini, così apparentemente distanti dal presente, siano sorprendentemente servite da innesco per un percorso capace di far cadere in modo molto fluido tutte le barriere tra i vari generi artistici.
La mostra che ne è nata è qualcosa che è difficile da definire. È qualcosa di simile a un viaggio che, a partire da una qualunque di quelle cinque porte, il visitatore è chiamato a fare. Si viaggia dentro il ventre di un palazzo-bastimento, che è stato sconvolto da una burrasca. A tratti, anzi, la sensazione è che la burrasca sia tutt’ora in corso. L’aspetto emozionante e anche spiazzante di questo viaggio è lo scambio di tutti i ruoli. Ad esempio, uscendo dalla sala di Morbelli, Anna Viebrock ne ha allestita un’altra, tipo La classe morta di Kantor, in cui lo spazio dipinto diventa uno spazio reale, con le stesse panche rappresentate nel quadro che diventano panche a cui siamo chiamati a sederci per vedere su tablet i brevi film che Alexander Kluge ha girato attorno a un tema dominante: Sento l’odore della tempesta, recita il titolo di una delle pellicole. Davanti, su quello che poteva essere usato come grande schermo, c’è invece una foto di Demand, che con sottile ironia destabilizza lo sguardo proponendo un’Attraktion che dà assai più vertigine che divertimento.
La presenza del ciclo di Morbelli non ha funzionato solo da innesco. In un certo senso ha anche suggerito il tono su cui tutta la mostra si è registrata. È un tono insolito, dominato non solo da un’evidente amicalità creativa che fa sì che ogni ambiente appaia come un tutt’uno; tutti gli interventi dialogano e si integrano con gli altri. Il tono insolito, suggerito forse dalla pittura commossa e insieme dimessa di Morbelli, è quello di una complessiva umiltà d’approccio. È Helmut Lethen, in un saggio in catalogo, a suggerire questa chiave quando, riferendosi in particolare a Demand, ci dice che l’artista arriva in ritardo sul luogo del delitto. Non ha quindi la presunzione del profeta ma ha lo sguardo attonito del testimone. Per questo non è in grado di spiegare l’accaduto, ma con pazienza certosina prova a rimetterlo in scena per capire. Proprio come fa Demand, che rimonta situazioni attraverso modelli di carta, per poterle poi fotografare. L’artista arriva tardi. Così Demand in Patio si trova a ricostruire il nascondiglio di Withey Bulger, «l’uomo più ricercato d’America», che viveva a neanche un miglio da casa sua…
La sedia di plastica ormai vuota al centro di Patio è un rimando a quella che nello stesso spazio Anna Viebrock ha sistemato, logoro residuo di un arredo scenico per lo spettacolo Tessa Blomstedt gibt nicht auf (Tessa Blomstedt non si arrende). E intanto sullo schermo di quella scena mezza dissestata va la sequenza di filmati che Alexander Kluge ha intitolato Barberopa. «Se il poeta non riesce a trovare le parole giuste per la tragedia, le parole fatali si insinuano nella realtà», recita il titolo di una di queste sequenze. C’è anche spazio per la suggestione di un naufragio vero, con Pacific sun, opera in cui Thomas Demand ricostruisce meticolosamente, con i suoi modelli di carta, le immagini riprese da una telecamera durante una tempesta e che su YouTube avevano avuto milioni di visualizzazioni. È una narrazione muta, asettica, di precisione chirurgica, in cui sparisce, per noi che guardiamo, il confine tra mare e terraferma. L’artista dichiara la propria impotenza a spiegare l’accaduto, eppure non si sottrae dal compito di ricostruire l’accaduto. Gli resta oscuro il senso, ma sa che è suo compito tramandare con esattezza la dinamica di quell’evento. In questo scarto continuo tra consapevolezza di impotenza e coscienza di una misteriosa necessità a procedere, sta la magia di questa mostra affascinati, in cui si resta quasi impigliati, al punto che allo scoccare di ogni ora un suono diffuso per lo spazio del palazzo ci riporta alla dimensione del tempo reale e ci fa riemergere.
È una mostra che funziona in tutti i suoi dispositivi, riuscendo a integrare tre generi espressivi, anche in tutti quei casi (e sono la maggioranza) in cui le opere non sono preparate appositamente ma derivano dai percorsi che ciascuno dei tre protagonisti ha fatto in precedenza in piena autonomia. È una mostra storico-politica senza nessuna pretenziosità e soprattutto senza nessuna retorica (a differenza di quanto si è visto a Kassel quest’anno, secondo quanto raccontato da Stefano Chiodi su Alias-D di domenica scorsa). C’è una sobrietà tutta tedesca in questo tentativo riuscito di «trasformare un palazzo veneziano in un luogo metaforico nel quale identificarsi e identificare il contesto in cui oggi viviamo» (Udo Kittelman). Il senso della storia e del presente è tradotto in uno spazio esistenziale, da vivere più che da guardare.
Un cenno a parte merita il catalogo, confezionato dentro una gabbia di cartone che sembra una zattera: strumento di grande qualità tra le cui pagine si può navigare ricevendo un’esatta percezione di cosa sia questa mostra, che comunque sarebe un peccato perdere. C’è tempo sino al 26 novembre.