Cinque aggressioni in tre giorni, a Genova, a fine gennaio. Rabbiose, brutali, a colpi di spranga, colpendo scientemente per far male, per mandare in frantumi quello specchio di cosa potresti diventare tutti, se appena gira ancora un po’ il vento cattivo di questi tempi. Per terra ci rimangono i barboni insanguinati, intontiti dall’alcol. Colpevoli di non saper difendere un simulacro di normalità fatta di cartone, di stracci, di un portico dove passare il gelo della notte che si conficca nelle ossa.

Cinque aggressioni ai clochard, lo specchio e il rovescio delle nostre città. Gente che preferisce stare in città, perché in città «il cielo puzza di basso, di uomini», in campagna invece la natura ti schiaccia, è quasi arrogante. Sono parole di Margaret Mazzantini, provengono da Zorro, un eremita su un marciapiede. Intanto è ben significativa la coincidenza che a Genova, la città delle aggressioni ai clochard, sia andato in scena proprio Zorro, messo in scena da Paolo Dago e Vittorio Ristagno per la stagione di Lunaria al Teatro degli Emiliani. Sul palco Zorro è Vittorio Ristagno,che regge tutto lo spettacolo solo sulla forza della sua voce e di qualche oggetto di scena: una panchina, due bancali, il cartoccio del vino.

Scorrono in sottofondo le musiche dei metropolitani e squassanti Morphine, Miles Davis, Duke Ellington. Ma il trionfo è della parola, del sapersi calare in quella realtà parallela in cui basta il sedimento di un errore su un altro per attraversare la zona grigia che ti porta dalla normalità di una bella casa, di una moglie isterica e petulante, del pacchetto della paste della domenica al piccolo inferno della strada, da rendere almeno un purgatorio dove ancora sopravvivere. Zorro un giorno ha investito con l’auto un giovane meccanico che correva senza prestare attenzione, il cane del ragazzo, gli è rimasto attaccato spaurito. Una cosa da nulla, un incidente banale. Ma il ragazzo poi muore, l’uomo, Pizzangrillo, lascia progressivamente il lavoro, stordito, la moglie prende a odiare quel cane e lui, rivolgendo i propri affetti altrove, e Pizzangrillo deve lasciare al proprio destino Zorro.

E, un giorno dopo l’altro, come diceva la canzone di Tenco, lui finisce per strada, perché, alla fine «non si può andare contro il destino». Lui è diventato Zorro, a inveire contro i «cormorani», la gente normale con una casa che lo guarda con disprezzo, a cercare ritagli di affetto alle mense e al diurno, a conservare qualche brandello di dignità, perché «la dignità non è una tessera, come un codice fiscale». Ha detto Margaret Mazzantini che scrivere Zorro l’ha aiutata «a stanare un timore che da qualche parte appartiene a tutti. Perché dentro di ognuno di noi, inconfessata, incappucciata, c’è questa estrema possibilità: perdere improvvisamente i fili, le zavorre che ci tengono ancorati al mondo regolare».

Ristagno restituisce al personaggio un’umanità corposa, dolente, a tratti esplosiva e rabbiosa: con una voce tenuta in bilico tra invettiva, torpore etilico, languore.