Tempo come andamento o movimento: lento, mosso, accelerando, rallentando. Anche nella musica, come nella fotografia, è relativo e la sua scelta dà l’impronta decisiva all’interpretazione. Dietro c’è l’istinto, naturalmente, ma anche tanta disciplina, studio conoscenza, attesa. Per Willy Ronis (Parigi 1910-2009) si tratta di coniugare i suoi mondi di provenienza: madre pianista e padre fotografo, entrambi sfuggiti ai pogrom dell’Europa dell’Est. Lei lituana, lui ucraino (erroneamente sui documenti francesi il cognome fu trascritto come Roness, ma anni dopo il figlio avrebbe provveduto a farli rettificare). Certo, avrebbe voluto fare il violinista, come ci ricorda anche quell’autoritratto scattato nella primavera del ’29 nell’appartamento in cui nacque, al numero 8 di Cité Condorcet ma la vita, a volte, impone  deviazioni impreviste. Così lo ritroviamo qualche anno più in là (è il 1951) ritrarsi davanti ad uno specchio con la Rolleiflex al collo e due lampade flash, la torcia a pile in una mano e la standard puntata verso l’alto con il lungo filo che serpeggia sul pavimento: una pratica di autoconvincimento nell’uso di uno strumento che detestava (analogo sentimento provato nei confronti della fotografia di studio) e a cui ricorreva solo in casi estremi.

CAMBIAMENTI
È significativo che questa foto sia esposta nella sezione «Cambiamenti: lavoro e società» della mostra Willy Ronis. Fotografie 1934-1998, curata da Matthieu Rivallin e coprodotta dal Jeu de Paume di Parigi e dalla MAP – Médiathèque de l’architecture et du patrimoine, archivio dei monumenti storici e del patrimonio fotografico dello stato francese con la partecipazione della Fondazione di Venezia, organizzata da Civita Tre Venezie alla Casa dei Tre Oci di Venezia (fino al 6 gennaio 2019). Per Willy Ronis, infatti, nel gotha dei «fotografi umanisti» insieme a Robert Doisneau, Henri Cartier-Bresson, Izis (Israëlis Bidermanas) e Brassaï (invitati da Edward Steichen per la mostra Five French Photographers al MoMa di New York nel 1951; alcune foto fanno parte anche di The family of man) – a cui vanno aggiunti, tra gli altri, Édouard Boubat, Jean-Philippe Charbonnier e Sabine Weiss – il quotidiano, declinato nella chiave di realismo poetico, riflette i diversi aspetti della società e la fotografia non ne è solo la testimonianza. È strumento di conoscenza e sensibilizzazione che per Ronis, in particolare, coincide con una precisa scelta politica: l’adesione al partito comunista francese, condivisa con la moglie Marie-Anne.

IN LOTTA
Eccolo, allora, con l’apparecchio al collo, partecipare alla lotta per l’uguaglianza, per il diritto al lavoro e a una vita migliore, nella gigantesca manifestazione parigina del 14 luglio che festeggiava la vittoria del fronte popolare, in rue Saint-Antoine (1936) a Vimy-Lorette (1949), allo sciopero della Citroën-Javel (1938), della SNECMA-Kellerman (1947) e di Le Charpentiers a Parigi (1950). Fotografa le riunioni sindacali, le operai delle fabbriche tessili in Alto Reno, i minatori di Saint-Etienne. La sua attività professionale inizia proprio con un reportage sociale scattato a Parigi in una stazione ferroviaria: Il ritorno dei prigionieri (1945) che, in un certo senso, è anche il suo ritorno nella capitale, dopo l’esilio nel sud del paese, tra il ’41 e il 44, per sfuggire alle persecuzioni antisemite. Dal 1946 lavora per l’agenzia Rapho pubblicando anche su Life, Time, Vogue e numerose altre testate, tra cui la rivista Regards esposta in mostra.

Aperto a pagina 6 e 7, il numero del 14 maggio 1948 è intitolato L’Art de prendre une photo pour les lettres française con testo di Aragon e foto di Ronis. Tempi duri quelli del dopoguerra, anche in Francia. La foto del mercato delle pulci alla porta di Vanves, scattata nel ’48 è esemplare nel sottolineare la dimensione reale e metaforica del tempo: la presenza dinamica di un uomo che cammina in lontananza e, nella stessa direzione, lungo la linea obliqua la bicicletta che avanza sui ciottoli mentre, in primo piano, una signora ancora distinta, malgrado l’apparente indigenza, propone su un telo messo a terra qualche vecchia bambola.

«LA METODE»
È lo stesso autore a ricordare quel momento, interessante anche per capire i meccanismi della sua metodologia di lavoro. «Breve periodo di riscaldamento e poi mi fermo, affascinato dal misero inventario di questa povera donna» – scrive in Le regole del caso (edizione originale del 2001, ripubblicato da Contrasto nel 2017) – «La bambola più grande, in piedi, mezza nuda al vento, sembra in sgomenta attesa di una famiglia adottiva. Mi ci vuole qualcosa che stemperi, in lontananza, la tristezza delle mura demolite. Sono solo le nove. Prima foto. So che l’escluderò per il palo sul marciapiede opposto. Faccio un passo a destra e un’altra foto, ma non terrò neanche questa perché ho scattato troppo tardi per evitare l’uomo con le stampelle. Mi sento impacciato e sto per scoraggiarmi quando accompagnato da un rumore di ferraglia compare un ciclista frettoloso. Clic. Restare più a lungo davanti a quella povera donna potrebbe farla arrabbiare. Me ne vado. So di aver mirato troppo a destra e che dovrò rettificare l’inquadratura in fase di stampa. Un’inopportuna velatura è un’ulteriore complicazione. Si tratta, comunque, di un’immagine che mi è cara». Ronis ha sempre controllato ogni fase del processo fotografico, dallo scatto al lavoro in camera oscura.

[object Object],, 1951

Tra le 120 stampe ai sali d’argento della retrospettiva ci sono anche dei vintage: per la prima volta vengono esposti i provini a contatto scattati a Venezia nel 1938, quando grazie all’amico Robert Capa ebbe l’ingaggio di fotografo di bordo su una nave da crociera che si fermò in laguna durante il giro nel Mediterraneo e quelli del ’59, due anni dopo esser stato premiato con la medaglia d’oro alla Biennale Internazionale di Fotografia di Venezia (1957). Durante la sua lunghissima carriera (smise di fotografare nel 2001) sono rarissime le messinscena, come lo scatto in cui il figlio Vincent lancia il modellino dell’aereo nella loro casa rurale a Gordes in Provenza, un luogo magico dove nasce anche Il nudo provenzale (1949), icona in cui l’intimità della scena con la moglie che si lava nel catino ha la stessa pennellata di un Bonnard. Un altro scatto celebre è Gli innamorati della Bastiglia (1957) in cui l’inquadratura coglie il riflesso di quell’amore nello sguardo sulla città che respira e sogna, proprio come i suoi protagonisti. Un romanticismo attraversato dalle sfumature, come la voce di Édith Piaf, che coglie la gioia dei giovani che ballano da Chez Maxe a Joinville-le-Pont (1947) o a Le Vieux Colombier (1949), ma non chiude gli occhi davanti alla realtà di quartieri popolari come Belleville-Ménilmontant (a cui è dedicato il suo primo libro pubblicato da Arthaud nel 1954), dove egli visse per molti anni. Impossibile, comunque, trovare uno scatto fastidioso o grottesco, perché Ronis ha sempre guardato l’altro – bambini e adulti – con grande rispetto e quella distanza giusta per concedere uno spazio di riflessione in chi osserva anche quando è molto vicino al soggetto, come in Dramma della ferrovia a l’Arbresle (1948), in cui si partecipa al dolore della vedova che «posa il fazzoletto sul viso del morto come un ultimo bacio.»

IN VIDEO
I video Willy Ronis (2009-2010) di Philippe Lecrosnier e Peter Burchett, insieme a Willy Ronis. Fotografie 1934-1998 (2018), realizzato in occasione dell’esposizione veneziana da Marco Zamata, contribuiscono a contestualizzare questa straordinaria raccolta selezionata tra le migliaia che formano il fondo di negativi e stampe che il fotografo ha donato nel 1983/1989 alla Map – Médiathèque de l’architecture et du patrimoine, archivio dei monumenti storici e del patrimonio fotografico dello stato francese.

SEI ALBUM
Un testamento visuale di grande importanza di cui stanno per essere pubblicati sei album con il titolo Willy Ronis by Willy Ronis: The Master Photographer’s Unpublished Albums (Flammarion, ottobre 2018), a cui aveva messo mano lo stesso Ronis insieme al curatore Matthieu Rivallin. Con una strizzatina d’occhio Ronis sembra guardare avanti e corre – corre – verso il futuro con lo stesso entusiasmo del ragazzino con la baguette (Il piccolo parigino) – altra sua icona del ’52 – mentre le parole raccolte durante un’intervista di un po’ di tempo fa riecheggiano, accompagnate magari da un sorriso genuino. «Cosa vorresti che dicessimo di te?»gli aveva chiesto la giornalista francese Valérie Duponchelle. «Era un bravo ragazzo e un bravo fotografo».