Al regista Daniele Incalcaterra Filmmaker di Milano (27 novembre-6 dicembre) dedica una personale. È conosciuto in Italia soprattutto per i numerosi premi ricevuti per El impenetrable, storia di una lotta condotta senza cedimenti per riuscire a regalare agli indios Guaranì una proprietà ricevuta in eredità dal padre in Paraguay. Gli ostacoli burocratici e politici che si innalzano in quella pur vasta porzione terra circondata da latifondi sono insostenibili ma infine riesce a piantare la bandiera della nuova «Arcadia». Impenetrabile era la foresta che un tempo sorgeva nella zona prima dello sfrutamento industriale, come impenetrabile la storia di quei territori visti per secoli come terra di nessuno e che hanno solo recentemente messo in moto un meccanismo di recupero storico. Così come il lavoro sulla memoria occultato per decenni dalla fine della dittatura militare in Argentina ha aperto tutto un gigantesco movimento di recupero della verità, dei corpi, dei luoghi, a dispetto dei tentativi di riconciliazione, di distruzione dei luoghi di tortura. Figlio di diplomatico, nato a Roma nel 1954, il regista ha vissuto in vari paesi e soprattutto in Argentina dal ’69 all’81, durante la dittatura ed è stato anche compagno di liceo di Marco Bechis. Garage Olimpio di Bechis e il suo Tierra de Avellaneda sono due facce della stessa storia.
In Tierra de Avellaneda girato tra il ’93 e il ’95, vediamo al lavoro il recupero dei resti nelle fosse comuni ritrovati nel cimitero di quel quartiere di Buenos Aires, e come emerga viva la storia di alcuni di loro, tra questi quello di un bambino e dei suoi genitori, poveri resti resuscitati dalla cura amorevole e determinata dell’Equipo Argentino de Antropología Forense (EAAF) che allora iniziava la sua opera. In quegli anni Carlos Menem era presidente e da una parte della società si voleva l’amnistia.
Lo stile di Daniele Incalcaterra è inesorabile: procede secondo un esame minuzioso dei dati e della percezione fino a creare il quadro esatto della situazione, soprattutto quando si tratta si svelare le realtà più oscure. Questo emerge in maniera lampante dalle sue indagini su situazioni difficili da raccontare perché occultate, prime tra tutte quelle del continente latinoamericano dove ha iniziato a filmare fin dal 1990. Numerosi erano all’epoca i lati sconosciuti, soprattutto perché il lavoro sulla memoria non era ancora cominciato, offuscato da una cappa di oblio, di amnesia. Procedeva allo stesso modo in Chapare (1990), la lotta contro la coltivazione della coca in Bolivia, un luogo dove si incontrano contadini, detenuti, cooperanti, esperti venuti dagli Stati Uniti, un microcosmo reso attonito dalla lotta per la sopravvivenza.
Raggiungiamo telefonicamente Daniele Incalcaterra a Tunisi dove è in giuria al festival di Carthage, il più importante festival di cinema del continente e gli chiediamo subito se ha letto la notizia della protesta della redazione di La Nacion per l’editoriale in cui si chiedeva al neoeletto predidente Macrì di mettere fine ai processi sui crimini della dittatura: «Mi sembra una decisione editoriale che si dà la zappa sui piedi, dice, la società tutta prenderebbe le distanze, neanche la gente di destra in Argentina sarebbe capace di chiedere questo perché il processo storico sulla verità è ormai consolidato. Per me è un grave errore del giornale. Una delle cose ben fatte da tutti, da Alfonsin, da Kirchner e Cristina è il processo sulla verità. Nessuno torna indietro». Il suo rapporto con l’Argentina è stretto, in ogni caso è difficile localizzare Incalcaterra in un luogo preciso: «Vivo tra Parigi, Buenos Aires e Locarno. Prima seguivo la mia famiglia all’estero. In Italia, nei miei sessantun anni, ho vissuto solo per sette anni. Quando sarei voluto tornare negli anni ’80 ho capito che non era il momento giusto». Assai lungimirante, bisogna dire, ma resta del suo passaggio il film Repubblica nostra (’95), da Mani pulite a Berlusconi (produzione francese, piuttosto censurato in Italia): «Non sopporto quello che succede in Italia, l’autocensura dei documentaristi, il mondo chiuso e familista del documentario. C’è poco rispetto per i progetti, se non hai un amico che ti appoggia non puoi fare niente, cosa che non succede in Francia e neanche in Argentina né altrove». Pensiamo allo strano incontro che potrebbe avvenire tra Incalcaterra e un produttore italiano a cui debba esporre ad esempio il progetto di El impenetrable, il profondo viaggio nella notte oscura della conquista. La nostra piccola provincia è lontana da scenari culturali: «A Parigi puoi vedere molto cinema, cosa che in Italia non accade, perfino in Tunisia un regista può ottenere 70mila euro eppure hanno un costo della vita quattro volte inferiore a quello dell’Italia dove al massimo te ne darebero 40mila e dove c’è una mancanza assoluta di fondi dalle televisioni e dai ministeri, oltre a poter vedere i documentari solo in alcuni festival. In Argentina ci sono diverse sale che proiettano documentari». Sarebbe poi veramente interessante assistere a un secondo incontro del regista con un produttore italiano per realizzare il seguito di El impenetrable: «Sto lavorando a quello che è successo in seguito, si potrebbe chiamare Arcadia o la terra del male, poiché per gli indios Guaranì la «terra del bene» è la loro utopia, ne parlano sempre, significa il poter accedere alla terra. Oggi mi trovo nella stessa situazione con cui iniziò il film, non poter avere l’agibilità dei miei cinquemila ettari, anzi mi trovo in una situazione peggiore, perché c’è un governo che ha deciso di trasformare tutta la terra in pascolo e coltivazione di soya e agli indios non consentono di possedere la terra. La vendono tutta ai latifondisti che sono i soli ad avere il potere di trasformare la foresta. L’happy end con cui terminava El impenetrable, il cartello che delimitava Arcadia oggi non ha più senso, i Guaranì non possono entrare in quella terra, è tutto circondato. Nonostante il decreto che li autorizza, ogni giorno la situazione è più catastrofica. Io sto facendo una battaglia probabilmente perdente contro una situazione che non cambierà nei prossimi anni. Il mio è un confronto con lo stato del Paraguay e io sono considerato persona non grata». Qui possiamo assistere al suo scatto politico (che diventa creativo) di chi non si limita a registrare gli eventi: «A me interessa parlare di un paese dove ho vissuto, non faccio documentari perché la televisione ne ha bisogno, sono film legati alla mia visione delle cose, alla mia ricerca, produzioni un po’ difficili perché in questo modo hai difficoltà a confrontarti con quelli che decidono che non capiscono questo ragionamento. Per me il cinema è desiderio del regista, nel documentario è desiderio dei personaggi che incontri». Era tutta materia indefinibile quella a cui si è accostato negli anni Incalcaterra, sconosciuta, sia il recupero delle ossa dei desaparecidos che sarebbero dovute giacere in eterno cancellate, sia la sfida epocale, capillare degli operai della ceramica Zanon diventata cooperativa autogestita, (diventata Fansinpat, Fabrica Sin Patron, a dimostrazione che una fabbrica può operare senza padrone, ma non senza operai), sia l’avanzare nello sconfinato latifondo alla ricerca di confini, limiti, storia, il lugar sin limites. Questo suo ultimo lavoro che sta realizzando in particolare è assai simbolico: la battaglia per i suoi cinquemila ettari da salvaguardare nell’avanzare dello sfruttamento intensivo rappresentano «in piccolo» il vissuto di tutti i popoli nativi del pianeta, l’impossibile difesa del territorio. «Sì, sta diventando un film simbolico, un esempio di quello che succede nel pianeta. Tra la destra becera del Paraguay e la maggior parte delle associazioni ambientaliste che ci appoggiavano e che sono sparite, più preoccupate per la loro continuità, ormai sono isolato, sono solo io e la mia troupe e non è neanche facile trovare fondi in Europa, anche perché parliamo del Paraguay, una realtà lontana che non si capisce, mentre in tutta l’America dall’Alaska alla Terra del fuoco si sa di cosa si sta parlando, è la base della conquista del continente. In Europa non si capisce la proprietà che in America non si tocca, mentre in Europa c’è sempre qualche legge che può bloccare chi sbaglia o chi inquina. In America la proprietà non si tocca e nella tua terra puoi fare quello che vuoi. In Paraguay il 2% degli abitanti possiede tutto il territorio più vasto, si dice che ci sia il rapporto più squilibrato tra proprietari e terra di tutto il pianeta (e si tratta di proprietari brasiliani, uruguayani, europei). Il mio vicino Favero possiede 2 milioni di ettari, cioè come metà della Svizzera, il presidente Cartes sta comprando, come presidente, migliaia di ettari al Chaco, tutti i senatori e deputati sono proprietari. Io sto cercando di far passare una legge (non basta un decreto che ho già, la legge è un gradino superiore del diritto) da una parte per proteggere la natura e dall’altra per proteggere i Guaranì. Per loro quella terra è una riserva per il futuro. Non voglio che succeda ai Guaranì quello che è successo in Paraguay ai contadini che occupavano terre, uccisi dai 330 poliziotti mandati per intervento del giudice, un fatto che è costato la destituzione del presidente Lugo nel 2012 per aver condotto male la vicenda. In quel caso furono uccisi undici contadini e sei poliziotti (e questi ultimi con armi che certo i contadini non potevano avere). Oggi il processo è ancora in corso, il film si basa proprio sulla mia richiesta di questa legge, parlo con la commissioni dei senatori addetta ai nativi (di cui fa parte anche Lugo) e dove già nella seconda seduta sentivo la loro poca voglia di stringere i tempi. La mia carta vincente è che in Paraguay tutti sanno di El impenetrable che è stato visto anche da Papa Francesco – si è preso un’ora e mezzo per vederlo – e che ha dichiarato che al ritorno in Paraguay vuole approfondire la tematica. Se si legge la sua enciclica si trovano questi temi».