Un festival jazz in pieno inverno in un paesino del Sulcis che si anima solo durante l’estate grazie alle magnifiche dune delle spiagge vicine? Una follia. Un festival jazz che, per giunta, punta tutto sull’avanguardia o su quella cosa che si è sempre chiamata così prima che saltassero fuori i detrattori della parola e allora bisogna ricorrere a termini più «corretti»? Doppia follia. Non per l’équipe dell’Associazione Punta Giara di Sant’Anna Arresi che da 29 anni sforna il festival jazz italiano più presigioso e avanzato, intitolato Ai confini tra Sardegna e jazz. Nel 2014 la consueta edizione estiva non s’è potuta fare e allora ecco qua l’edizione invernale. Giorni di fine anno sottozero, un tendone tipo circo che mantiene una temperatura da pinguini, ma musica di prima qualità. Per dare contenuto al seguente slogan: l’ultra-free è vivo più che mai.

Decoy, per esempio. È un trio guidato – si fa per dire: l’improvvisazione paritaria è pratica sovrana – da Alexander Hawkins. Un pianista inglese trentatreenne che in questa formazione suona soltanto l’organo Hammond. Con lui l’immenso John Edwards al contrabbasso e il quadrato/immaginifico Steve Noble alle percussioni. Hawkins prova ad andare oltre l’informale, a giocare sulle strutture pre-ordinate e sull’eclettismo. Ci riesce. Nel bene e nel male. Vediamo. Nel bene perché la varietà dei richiami nelle parti del leader, dal flusso torrenziale di un Cecil Taylor alle sventatezze di un Sun Ra tastierista, permette di dribblare il pericolo del cliché da free improvisation, sempre in agguato. Nel male (relativo, molto relativo) perché il senso discorsivo del lungo set porta a una certa narratività degli episodi, a un certo descrittivismo di paesaggi immaginari ma realistici e coloristici.
Il gruppo Talibam! più Alan Wilkinson non si pone problemi di questo genere. Formato da due scriteriati/avventurosi musicisti post-rock (o free-rock), il tastierista Matthew Mottel e il batterista Kevin Shea, titolari della ditta Talibam!, con l’aggiunta di un ospite abituale, il sassofonista (alto e baritono) Wilkinson, un improvvisatore ultra-free che si potrebbe definire maniacale, si butta a capofitto nell’universo free più estremo senza nessun timore della ripetitività. Il percussionismo di base è atletico, in crescendo continuo, ossessivo, l’urlo del sax echeggiato dalla tastiera elettronica è permanente, il parossismo di questo concerto al calor bianco è senza requie, infernale. Paura di una monotonia per quanto agitata? Macché. Vitalismo pieno, animo entusiasta, pensiero incandescente.

Si ritrova Hawkins, questa volta al pianoforte, in un duo che si preferirebe ignorare. Il partner è il batterista sudafricano (a lungo attivo in Inghilterra) Louis Moholo. Fanno una musica chiaramente suggerita da Moholo: si tratta di motivi lontanamente riconducibili al folk sudafricano, ma le modalità sono da obbrobio, con un pianismo pompier, accordoni pseudodrammatici che più che a Musorgskij, mettiamo, fanno pensare a Liberace. Da dimenticare in fretta.
Eppure Hawkins è un grande. Lo dimostra in un quintetto di All Stars che costituisce il momento culminante del festival. E che è anche una delle puntate della piccola monografia su Evan Parker. Il sassofonista inglese, un maestro riconosciuto della free improvisation europea e mondiale, e non solo della free improvisation come solista ma di una lunga variegata esperienza di leader, di vero e proprio compositore senza spartiti, ispira un set che definire meraviglioso è poco. Oltre a Hawkins ci sono Peter Evans alla tromba, John Edwards al contrabbasso, Hamid Drake (l’ospite americano che non ti aspetti, con la sua poetica del caldo tribalismo africano e metropolitano) alla batteria.
Parker (al tenore) prosegue qui la sua indagine sulla storia del saxtenorismo moderno e free, quell’indagine che ha iniziato da anni e di cui ha esposto qualche scampolo durante il concerto del quartetto a suo nome (con Evans, Edwards e Moholo) in una serata di questo stesso festival invernale sardo.

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Un Parker classico, si direbbe moderato se con uno come lui il termine non fosse sempre sbagliatissimo. Sonorità terrosa, fraseggio misurato nel registro medio senza concessioni al melodismo né alla tonalità. Evans è una miniera di invenzioni, Drake, scorrevole, pastoso, turbinoso, inietta sentimento black, Hawkins dà un senso colloquiale agli azzardi disarmonici più estremi, Edwards lavora sul pizzicato fitto come nel «vero vecchio jazz» ma anche su sciabolate traslucide con l’archetto di pura avanguardia che lo rivelano per l’ennesima volta quel genio che è. Il risultato è di esaltazione assoluta. Siamo ancora nello stratosferico col settetto elettroacustico di Evan Parker. Il leader è al sax soprano, con lui Peter Evans, Steve Noble e un quartetto di elettronici eccezionali, variamente disposti: Walter Prati (computer processing), Marco Vaggi (sound projection), Paul Obermayer e Richard Barrett (entrambi live electronics). C’è qualche differenza tra questa performance e quelle conosciute di Parker con i suoi ensemble elettroacustici, che in genere comprendono anche strumenti ad arco? In quei lavori si respira un clima di rarefazione e meditazione, un clima di organizzazione molto rigorosa della successione di suoni. E qua? Stessa cosa. Solo che i quattro elettronici puntano a integrarsi vivacemente con il criterio della libera improvvisazione, spesso assai mossa, agitata, come se un quadro di Jackson Pollock esplodesse in mille suoni.

Il festival s’inchina a Peter Evans. Trombettista americano, 33 anni, molto amico di inglesi radicalissimi. In solo. Mezzora di frasi della più varia composizione sonora, sempre nell’ambito della più autentica avanguardia – e che i critici pignoli della parola vadano a farsi benedire -, senza uno stacco, tutte legate. Avvio con una sorta di esercizio melodico vivace/pacato intorno a due-tre note. Presto un’immersione nel grave cavernoso, come un addentrarsi in una «esplorazione dell’abisso». Su tutti i registri ancora tanti giochi di note ribattute, di brevi linee melodiche non cantabili, di punti sonori, di spezzature, di rumorismi calcolati al millesimo. Il continuo del set fa un po’ pensare alle storiche improvvisazioni con respirazione circolare di un Evan Parker. L’idea è quella di una scorribanda senza respiro ma molto «cerebrale», e chi ha detto che la dimensione del cerebrale sia per forza fredda e scostante? Non c’è niente qui dell’«imperturbabilità» di alcune avanguardie concettuali: Evans è ormai un virtuoso comunicativo, il suo ammirevole disegno è olimpico e spasmodico nello stesso tempo.