Applausi spontanei, urla di incitamento, tamburi battenti, sorrisi e abbracci, lacrime di commozione e gioia. Domenica una travolgente onda di energia, emozione e riscossa collettiva ha riempito il cuore di Sarajevo, il tratto tra il monumento della Fiamma Eterna e il piazzale del Parlamento, con circa duemila persone. Per capire a fondo la portata dell’evento bisogna guardare indietro. «Nessuno osa nemmeno contemplare di organizzare un Pride a Sarajevo o in un’altra città della Bosnia Erzegovina» sosteneva nel 2017 un articolo che suscitò polemiche. Ancora nell’autunno 2018, alcuni attivisti commentavano rassegnati che sarebbe stato molto improbabile organizzarne uno a breve. Continuavano a pesare le memorie delle aggressioni violente subite dalla comunità lesbiche, gay, bisessuali, trans e intersessuali, queer nel 2008, 2014 e 2016.

In Bosnia Erzegovina il dogma dell’eterosessualità si è rafforzato dopo le guerre degli anni Novanta e la successiva ondata di militarismo, nazionalismo e desecolarizzazione. Ma le associazioni Lgbt+ hanno continuato ad aprire piccoli spazi di protezione e visibilità. E sono arrivati a esigere ciò che ad alcuni, a torto, sembrava impossibile: il primo Pride nell’ultimo paese dell’ex-Jugoslavia e di tutto il sud-est Europa in cui non si era mai organizzato, dunque «L’ultimo primo Pride». Fu annunciato cinque mesi fa, suscitando le minacce di gruppi radicali e l’indignazione delle forze conservatrici – di tutte le confessioni – che dominano la scena pubblica bosniaca, e si è tenuto ieri.

CORTEO E COMMOZIONE

La giornata è cominciata presto. I primi attivisti sono arrivati molte ore prima dell’inizio previsto per le 12, accompagnati da un impressionante dispiegamento di forze dell’ordine, con più di mille agenti – presenti anche tiratori scelti sui piani alti – e un unico punto di accesso al corteo, con controlli stretti. Su cartelli e striscioni si leggevano alcuni messaggi rivendicativi e altri con richiami universali: «L’amore non è un privilegio», «Orgoglio senza pregiudizio», «Quanto costa la libertà?», «Noi siamo famiglia», «Lui ama lui», «Mamma, eccomi qui!». «Uguali diritti per tutti non significa meno diritti per te!», «Scusate se la mia esistenza distrugge i vostri pregiudizi», «Difendiamo i rifugiati», «C’è da vietare i fascisti» (sottintendendo «non noi», per le richieste di proibire la marcia avanzate fino a pochi giorni fa).

A un’ora dall’inizio il corteo ha iniziato a ingrossarsi, segnale che un pezzo significativo della città ha voluto sfidare il clima di paura e di indifferenza, ha riabbracciato la propria pluralità e la vocazione all’apertura, incontrando i tanti pezzi di mondo giunti per l’occasione. C’erano le Donne in Nero di Belgrado, collettivi Lgbt+ di Serbia, Montenegro, Croazia e Albania, rappresentanti di diverse ambasciate – tra cui quella italiana -, attivisti venuti a sostenere la marcia dalla Germania, dal Regno Unito, dall’Italia, e naturalmente da tutta la Bosnia Erzegovina: Mostar, Banja Luka, Tuzla, Zenica. Appena si è capito che i pessimismi della vigilia erano infondati – sottovoce si temeva un corteo raccogliticcio limitato a poche centinaia di attivisti abituali – la tensione si è sciolta.

Per scelta degli organizzatori non c’era musica amplificata. Eppure dal corteo si è liberato subito il canto potentissimo di Ay Carmela, la leggendaria canzone dei repubblicani spagnoli che nei paesi post-jugoslavi è l’inno popolare contro fascismo e autoritarismo. Poi è partito lo slogan-icona del Pride sarajevese, Ima izac! (C’è da uscire!), seguito da Ponos! (orgoglio). A quel punto si è allentato persino il rigidissimo protocollo di sicurezza delle forze dell’ordine, una scorta talvolta apparsa perfino troppo invadente (ma va riconosciuta l’estrema professionalità e l’efficacia nel prevenire incidenti; l’organizzazione è stata impeccabile). È diventato chiaro che è la partecipazione e il sostegno civile, e non (solo) le transenne e le scorte, a creare uno spazio protetto e libero. Il momento più temuto per la sicurezza è stato quello in cui il corteo è passato a un centinaio di metri dalla contro-manifestazione di un’associazione ultraconservatrice musulmana, presente con alcune decine di manifestanti. La circostanza è passata inosservata alla stragrande maggioranza del Pride: ben più attenzione è stata riservata alle diverse persone, soprattutto anziane, che salutavano dalle finestre. Quando il corteo è giunto al piazzale davanti al parlamento, molti manifestanti erano visibilmente commossi.

«Oggi come mai finora, noi lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e queer smettiamo di essere invisibili. Oggi come mai finora, lotteremo per le nostre vite. Vogliamo costruire una società di non-violenza e comunità, dove nessuno dovrà nascondere l’amore e vivere dentro quattro mura», ha detto dal palco Lejla Huremovic, una delle organizzatrici della marcia. Le «quattro mura», un riferimento tipico nella narrazione omofoba e transfoba, in questi giorni si ascolta quasi ossessivamente nei discorsi dei politici conservatori. «Siamo coscienti che questa marcia non cambierà il mondo. Ma sappiamo che darà speranza per cambiare davvero le cose», ha concluso Huremovic.

ANTIFASCISMO E DIRITTI

In una piazza che brulicava di partecipazione, l’attivista Branko Culibrk ha ricordato chi mancava. «Sentiamo grande responsabilità verso tutti coloro che per paura di violenze e discriminazioni, non se la sono sentita di essere con noi. Ogni giorno lottiamo per la nostra esistenza. Ogni giorno il nostro amore e la nostra identità sono attaccati, non accettati, sminuiti, aggrediti». Culibrk ha ricordato le lacune delle istituzioni del paese che «permettono violenza contro di noi, ci stigmatizzano, ci emarginano, ci costringono a trattamenti forzati, vietano un’educazione sessuale democratica. Continuiamo a non avere nessuna legge sulle coppie omosessuali. Alle persone trans non è permesso l’accesso alla sanità pubblica, non possono cambiare i documenti se non hanno compiuto la transizione».

Nella conclusione Culibrk ha lanciato, ancora una volta in questa giornata, un messaggio trasversale: «Sentiamo, per responsabilità e solidarietà, di dover parlare di tutti i gruppi oppressi della società bosniaco-erzegovese: i rom, le persone con invalidità, lavoratori e lavoratrici, i veterani di guerra, i migranti e i rifugiati, e tutti quelli che sono lasciati ai margini. Tra tutti loro si trovano anche persone Lgbt+, che subiscono una discriminazione multipla. Chiediamo più solidarietà ed empatia verso tutte queste persone».

Le ultime vibrazioni della piazza si legano alla musica di Damir Imamovic, celebre interprete della sevdah, il genere tradizionale bosniaco. «Che ognuno ami chi vuole» (Neka ljubi ko god koga hoce): Imamovic ha scandito intensamente queste parole di un celeberrimo brano d’amore della sevdah, prima di chiudere con una sorprendente – e virtuosissima, al netto di una leggera incertezza linguistica – interpretazione di Bella Ciao. Ricordandoci che l’antifascismo, qui e altrove, non è un’etichetta o un marchio vintage, ma una presa di coscienza necessaria contro lo svilimento della dignità umana e la violenza organizzata che si abbatte su emarginati ed oppressi.

In un cerchio ideale, il Pride si è aperto e si è chiuso con due inni dell’antifascismo europeo, i frammenti migliori del secolo passato in un paese che reclama di vivere e costruire più liberamente il secolo corrente, con tanti spazi e ben più di quattro mura che restano da aprire.

*OBC TRanseuropa