È morto ieri mattina a Bologna Roberto Antoni, per tutti Freak Antoni. Aveva solo 59 anni e della sua lunga malattia («una gran seccatura») aveva raccontato ancora di recente in un’intervista a Rolling Stone. Fondatore degli Skiantos nel fatidico 1977, era inventore e da sempre massimo teorico del rock demenziale, del demenziale in genere: benché la parola fosse entrata nei vocabolari e nell’uso comune aveva in pratica passato la vita a rispiegarla come se avvertisse un difetto di comunicazione, una traduzione imperfetta nella sua applicazione alla storia italiana dei trent’anni successivi. Aveva scritto: «Che differenza c’è tra demente e demenziale? Risposta: il demente non capisce la differenza tra demente e demenziale». Non è solo una battuta facile, ma il nodo della questione.

Difficile inserirlo nella categoria onnicomprensiva dei comici, men che mai in quella dei cabarettisti televisivi. Da ultimo gli Skiantos erano apparsi come resident band nella trasmissione di Italia 1 Colorado Cafè, ma non era la «stessa cosa» e non solo per facile snobberia. Impreciso considerarlo soltanto un cantante punk. Certo, a Johnny Rotten, aveva poco da invidiare quanto a presenza scenica. E come i gruppi punk inglesi e americani della loro epoca, Freak Antoni e gli Skiantos non sapevano suonare, né cantare. Si presentarono ad uno studio di Bologna dove facevano il liscio e Vasco Rossi. «Non siete nemmeno originali – disse loro il produttore Gianni Gitti, che aprì la porta – Tutti quelli che non sanno suonare né cantare vogliono suonare un disco» Freak Antoni: «Quando si comincia?» Gitti: «Domani». Nacque così Inascoltabile: in dieci in uno studio, dilettanti di genio, punk del Dams, vecchi compagni di scuola. Il grido iniziale uno, due, sei, nove diventerà un marchio di fabbrica. Così le note di copertina originali: «gli skiantos sono un gruppo under metropolitano gente che non sapeva suonare ribelli impegno politico arrabbiato».

Inascoltabile uscì su cassetta per la Harpo’s Bazaar di Oderso Rubini, la prima etichetta indipendente italiana di stile punk, o qualcosa del genere. Riprendersi i mezzi di produzione. Bisognerà aggiungere che gli inglesi a quel tempo guardavano all’Italia e alla Bologna del ’77 come una specie di incredibile ispirazione rivoluzionaria. Oderso Rubini, come Freak Antoni, frequentava i corsi di Gianni Celati al Dams. Al Dams c’erano Andrea Pazienza, Scozzari, Francesca Alinovi, il professor Umberto Eco garantiva la serietà dell’operazione. In realtà sembrava un rifugio antiatomico per la generazione creativa che a Bologna in quei giorni aveva visto i carriarmati in strada e provato sulla propria pelle il futuro postpolitico, postindustriale, postideologico. Comunque metropolitano.

Freak Antoni è il primo a usare il gergo di strada bolognese, metropolitano e un po’ tossico, nel rock. Peso, pesissimo, sbarbine, slego, flebo, paradura. Altro lavoro per il vocabolario italiano. Intitola una canzone Karabignere blues. Un’altra, Kinotto. La «k» di Amerika e Kossiga migra dai muri delle città al rock demenziale. La circostanza è significativa. Gli Skiantos, come tutto il punk (a cominciare dai Clash) metabolizzano una sconfitta storica, epocale: al thatcherismo, al reaganismo, al craxismo si poteva tutt’al più sopravvivere, magari ridendo, per poco che possa sembrare. «Gli Skiantos facevano parte del movimento, ma non del tutto», averebbe riassunto un po’ sibillino lo stesso Freak Antoni anni dopo.

Con Gianni Celati si era laureato nel 1978: una tesi sui Beatles. Quando mette in scena la parodia delle rockstar anni ’70 – i Rolling Stones riletti in filigrana nel «non saper suonare» – compie allo stesso tempo un atto d’amore verso quella mitologia. Freak Antoni ne era un cultore. La sua decostruzione del rock, ma anche della poesia cantautorale e canzonettara, è di scuola damsiana, nel disperato e ironico spirito dei tempi (decostruzione non è la stessa cosa che distruzione). E non poteva fare a meno del piacere narrativo, carnevalesco, colpevole persino, della cosa: Stagioni del rock demenziale, il primo libro di Freak Antoni uscito per Feltrinelli è un folle catalogo di band mai esistite.

Nel 1979 gli Skiantos incidono per la Cramps di Gianni Sassi i loro due dischi più noti: Monotono e Kinotto. Il produttore è il chitarrista dei radicalissimi Area, Paolo Tofani. Una pubblicità del disco recita più o meno: «Gli Skiantos hanno imparato a suonare». In realtà, a distanza di tempo, si può dire che non sono mai stati malaccio. «Quello che uccide i musicisti è che sanno suonare», spiegherà anni dopo Freak Antoni: era già uno statement da arte concettuale, era dada, non rock’n’roll. L’eredità situazionista che si respirava dentro la Cramps aggiunge al suo cabaret un elemento in più: il «punk» degli inizi trova altre sponde, aggiunge altro senso all’idea di «demenziale». Tira in ballo dada e i futuristi, Frank Zappa e John Cage. Nel 1979, invitati sul palco di Bologna Rock alla prima parata della new wave italiana, gli Skiantos cucinano sul palco un piatto di spaghetti e stop. Il pubblico è imbestialito, ma non è una novità. Il pubblico di Freak Antoni è sempre stato imbestialito: era il segno che tutto funzionava. I pomodori e altri ortaggi li forniva lui.

Ufficialmente Freak Antoni ha abbandonato gli Skiantos nel 2012. Ha fatto un milione di altre cose, ma non è mai cambiato. Il sarcasmo col quale trattava vecchi colleghi che ce l’avevano fatta (Vasco Rossi, Elio e le Storie Tese) non è mai sembrato rancoroso o fuori posto, anzi. Il tempo si era incaricato di fargli trovare un’ultima spiegazione del demenziale. Fuori dal mito bolognese, ormai lontanissimo per tutti: «L’umorismo è autoconsapevolezza che non puoi vincere con la vita, perché lei ti bastona in maniera sempre diversa e sempre nuova, e alla fine muori», aveva scritto in uno dei suoi libri più recenti, Non c’è gusto in Italia ad essere dementi.