L’ordinanza con cui martedì sera il governatore Luca Ceriscioli (Pd) ha sbarrato le Marche causa coronavirus è stata una sorpresa solo fino a un certo punto: il provvedimento era già pronto da un giorno ed era stato addirittura annunciato ai giornalisti in una clamorosa conferenza stampa con chiamata in diretta del premier Conte che ha costretto alla marcia indietro seduta stante. Bisognava aspettare l’incontro tra l’esecutivo e tutti i presidenti di regione, nel quale si sarebbe convenuto di lasciar perdere le iniziative autonome e di provare a seguire tutti la stessa linea. Sembrava tutto tranquillo, persino i battaglieri Zaia e Fontana avevano sotterrato l’ascia di guerra, e invece dalle periferiche Marche è arrivato uno scossone: ordinanza draconiana, scuole chiuse, musei chiusi, biblioteche chiuse, iniziative pubbliche vietate fino al 4 marzo.

Il consiglio dei ministri ha deciso di impugnare l’ordinanza e per tutta la giornata di ieri è stato un continuo menar fendenti da Roma all’indirizzo del governatore marchigiano in scadenza di mandato. La ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha cominciato a picconare martedì notte in diretta da Giovanni Floris su La7, poi Giuseppe Conte in persona ha ribadito che «le Marche hanno realizzato uno scarto, una deviazione. Questo non va bene perché se ognuno assume iniziative per conto suo si crea una confusione generale del Paese difficile da gestire. Disporre la chiusura delle scuole poi crea problemi per i genitori. Ha solo effetti negativi e non positivi». Critiche sono arrivate anche dal capo della protezione civile Angelo Borrelli e dal ministro Francesco Boccia, che già lunedì mattina aveva inviato ai presidenti di regione una circolare per ribadire che non potevano continuare a fare di testa loro in ordine sparso.

Ceriscioli comunque non fa un passo indietro. Anzi, forse per la prima volta durante il suo mandato ha deciso di recitare la parte del leone (e non pochi lamentano il fatto che non si sia mai mostrato tanto combattivo quando si parlava di terremoto), dimostrando in qualche modo di meritare il soprannome che un gruppo di giovani del Pd gli ha dato su Facebook: «Il Cè», con tanto di iconografia da rivoluzione cubana. «Ho l’impressione che Conte faccia fatica a dare a tutto il territorio nazionale indirizzi omogenei – ha detto il governatore a Radio Capital -. Tutte le regioni hanno pari dignità e noi amministratori abbiamo pari responsabilità. Lo stesso decreto del governo dà più potere alle regioni. Ora Conte se lo vuole riprendere: facesse pace con se stesso, noi non possiamo star dietro a questa schizofrenia».

Bordate che hanno raccolto plausi soprattutto a destra, «il Cè» che diventa paladino dell’orgoglio marchigiano di fronte al governo. Il Pd, di contro, non sa bene come muoversi: il segretario Nicola Zingaretti non lo ha mai avuto in simpatia e i vertici locali hanno da tempo deciso di candidare qualcun altro alle elezioni previste a primavera. Ceriscioli, ormai sconfitto ma di certo non arreso, ha deciso così di tirare l’ultima zampata: si è infilato nella breccia polemica anti Conte aperta da Lombardia e Veneto e ha sfoderato l’artiglieria, forte anche di un caso di infezione registrato a Pesaro.

Le conseguenze sono tutte da capire: l’ordinanza reggerà? L’impugnativa del governo avrà qualche effetto? Da sinistra a destra quelli che vogliono le dimissioni del governatore e quelli che lo vedono come un eroe a sorpresa quasi si equivalgono e alla fine l’unica verità è nello slogan di un vecchio spot turistico: le Marche ti sorprendono sempre.