Nella mitologia degli Yanomami, popolazione indigena della foresta amazzonica al confine fra Brasile e Venezuela, i minerali che si trovano sotto terra sono forieri di morte: proprio l’oro scoperto negli anni Ottanta nelle loro terre ha attirato migliaia di prospectors che hanno massacrato le persone e la foresta, avvelenato il fiume con il mercurio, oltre a portare le malattie degli «uomini bianchi» – oggi il Covid che miete vittime senza sosta fra le popolazioni indigene del Brasile. Fra loro e insieme a loro gira il suo film – A ùltima floresta, presentato in questi giorni nella selezione di Panorama della Berlinale 71 – Luiz Bolognesi, regista brasiliano che sceglie una forma a metà fra il documentario e la «finzione», scrivendo la sceneggiatura proprio insieme allo sciamano degli Yanomami: Davi Kopenawa.

Davanti alla macchina da presa non si svolge infatti solo la vita quotidiana del villaggio, ma prendono forma i suoi miti ed episodi importanti come la cacciata di un gruppo di cercatori d’oro, messi in scena dagli stessi Yanomami che hanno partecipato al film da «attori»: «Ho sempre ascoltato molto – spiega Bolognesi – senza mai dire a nessuno cosa fare. Nella foresta da ’uomini bianchi’ non siamo neanche capaci di rimanere vivi, siamo così deboli che non possiamo avere la pretesa di controllare la situazione. Quindi il mio metodo era chiedere continuamente: come potremmo fare per raccontare questa storia?».

Come ha lavorato insieme a Davi Kopenawa?
Il mio film precedente, Ex-Shaman, parla di uno sciamano che non ha più potere dopo l’arrivo dei preti evangelici e il loro lavoro di indottrinamento. Volevo raccontare anche il contrario: lavorare con una comunità indigena dove ancora lo sciamano detiene il suo pieno potere – politico, mitologico, scientifico. Perché è molto importante mostrare anche la lotta, la resistenza contro la distruzione della loro cultura e della loro stessa lingua. Per prima cosa mi sono chiesto con che popolo lavorare: qui in Brasile ci sono oltre 200 diverse nazioni native, che parlano diverse lingue e vivono situazioni molto differenti tra loro. Mentre giravo Ex- Shaman avevo letto il libro di Davi Kopenawa – La caduta dal cielo – così ho pensato di chiedere a Davi di essere non soltanto il personaggio principale del film, ma il suo coautore. Mi ha invitato a passare del tempo con loro nel mezzo della foresta per trovare le storie che cercavamo: stando lì ho capito che le persone non mi raccontavano solo ciò che gli accadeva ma anche miti, episodi in cui non è chiaro il confine fra realtà ed evento magico, perché per loro questo confine non esiste: il piano dei sogni non è diverso da quello della realtà.

Il film è anche una denuncia di come il governo Bolsonaro sta lasciando campo libero alle compagnie minerarie per saccheggiare le loro terre.
La legge brasiliana riconosce la terra Yanomami come loro proprietà, e per la costituzione una terra indigena legale non è accessibile da esterni senza invito. Prima dell’elezione di Bolsonaro l’esercito brasiliano e la polizia federale hanno lavorato a lungo nelle foreste per cacciare gli invasori, i cercatori d’oro – le istanze di questi popoli erano rispettate. Dal 2019 invece le forze dell’ordine hanno smesso di fare questo lavoro. E addirittura il governo Bolsonaro sta cercando di cambiare la legge per dare alle compagnie minerarie la possibilità di entrare liberamente in questi territori. È un momento difficile in cui è molto importante che l’opinione pubblica brasiliana si opponga ai piani del governo, e soprattutto che venga esercitata una pressione internazionale – ad esempio un boicottaggio sull’acquisto di soia dal Brasile – finché la legge non verrà di nuovo rispettata. Quando gli invasori sono pochi gli Yanomami riescono a cacciarli. Ma gli è impossibile opporsi a migliaia di persone armate, con gli elicotteri… E il pericolo non è solo ovviamente per gli Yanomami: la distruzione della foresta è una catastrofe per tutti.

La minaccia rappresentata dall’«uomo bianco» è anche di un altro tipo: la seduzione esercitata da uno stile di vita.
È quello che Davi chiama «l’incantesimo della merce», che esercita una sorta magia come le creature della foresta. Nel film, quando suo marito non torna una donna pensa che sia stato incantato da una creatura dell’acqua, perché lo ha visto in sogno. Allo stesso modo, Davi dice che i più giovani restano incantati dalla merce: vogliono oggetti come scarpe, telefoni… Nonostante nella foresta non ci sia connessione. Così vanno a lavorare in città, o per le stesse compagnie minerarie.

Dalle parole di Davi Kopenawa emerge la consapevolezza di come i popoli indigeni vengano spesso rappresentati in maniera esotica.
Per lui è fondamentale non essere ridotto a una figura esotica. Lo dice anche nel film: gli uomini bianchi non ci conoscono, hanno un’immagine che si sono fatti di noi che non ci rappresenta. Quando parlavamo del progetto di A ùltima floresta mi ha spiegato di voler denunciare la loro situazione – la persecuzione da parte dell’amministrazione Bolsonaro, il Covid… – ma che non voleva che gli Yanomami fossero rappresentati come delle vittime, ammalati, deboli. È così che ho lavorato con il film: opponendomi all’esibizione del dolore.