Non si può negare che Luigi Ontani, grande viaggiatore, abbia infallibile il Genio Del Luogo. La sua nuova casa-studio si trova in quello che era lo studio di Antonio Canova; né potrebbero essere meglio scelte, nella stessa Roma, le locations delle ultime due sue bellissime mostre antologiche: nel 2012, a cura di Luca Lo Pinto, AnderSennoSogno al museo Andersen, oggi (e sino al 22 settembre) SanLuCastoMalinconIcoAttoniTonicoEstaEstetico alla Accademia Nazionale di San Luca (della quale Canova, proprio, fu Principe Perpetuo dal 1814 al 1822). A ristrutturare lo spazio di Palazzo Carpegna, a due passi da Fontana di Trevi, fra gli anni trenta e quaranta del Seicento, fu Francesco Borromini: al quale si deve, in particolare, la stupefacente rampa elicoidale che conduce dal porticato al pianterreno alle grandi sale della Galleria al terzo piano. Le strutture a spirale erano com’è noto un suo marchio di fabbrica: dallo scalone di Palazzo Barberini alla lanterna apicale di Sant’Ivo alla Sapienza. Verrebbe da pensare che Borromini rispondesse con questo artificio – già vagheggiato da Leonardo – agli spazi ristretti in cui gli toccava in sorte di operare, nella complessa alchimia «politica» di quella Roma barocca chiaroscurata d’inganni (o che, piuttosto, solleticavano una fantasia, la sua, di per sé ossessivamente miniaturistica – perfettamente agli antipodi, in questo, degli spazi «esplosi», sterminati, dell’arcirivale Bernini). Non pare questo il caso, però, perché le volute di Palazzo Carpegna, a percorrerle, sono dolcissime: tanto ampie da ospitare ventisette cospicue nicchie. Si ignora cosa contenessero in antico; ma, da quando Ontani l’ha visitata, non ha avuto dubbi che questa curva infinita fosse uno spazio espositivo ideale (un «avo del Guggenheim», dice a Hans-Ulrich Obrist nel catalogo di prossima uscita, alludendo alla spirale di Frank Lloyd Wright a New York) e, in particolare, che a perfezione vi s’inalveassero le sue ErmEstEtiche.
Ecce Homo d’après Reni
Nelle sale «tradizionali» della Galleria i lavori di Ontani, con malizia pari alla delicatezza, s’incastonano fra i tesori dell’Accademia con manieristici giochi d’eco (a fronte per esempio dell’aerea Fortuna con la corona in mano di Guido Reni, da poco restaurata, ecco un Ecce Homo, d’après lo stesso Reni), nei quali Ontani rifà sul contorno della propria ombra, si può dire, l’intera storia dell’arte: dal primordial Io-Bacchino del ’70, d’après Guercino, agli Io-Sindone di CruciVerboVia del ’98, sino a trasformarsi persino, giocoso, in Io-Bottiglia di Morandi. Sulla parete con affissi i ritratti dei passati Accademici, emblematicamente Ontani – che Accademico non è – si è sostituito a un oscuro Jean-François de Troy con un proprio autoritratto-San Sebastiano del ’75 (anch’esso d’après Guido Reni). È la sua vera passione, del resto, questa enciclopedica. Nel 2003 aveva dichiarato, qui, a Federico De Melis: «ho scelto di fare della mia vita pittura, e della performance pittura, non per vivere l’oblio ma per resuscitare la storia dell’arte, della favola, della mitologia, dell’allegoria, del folclore, dell’iconologia».
Ma allora è proprio nel mirabolante allestimento della rampa elicoidale che va indicato il vero highlight della mostra. Sulla faccia esterna della spirale sono collocati gli autoritratti «lenticolari», dai tratti e gesti anamorfizzati (fra i quali spicca – ulteriore spirale ascensionale – un Io-Colonna Traiana); su quella interna, come detto, le ErmEstEtiche, che riprendono la forma originaria di pilastri quadrangolari sormontati da una testa umana, con brevi appendici laterali e membro itifallico frontale. Ma dagli anni novanta Ontani ha preso a produrne in forma anfibologica, a sua volta anamorfica diciamo, cioè bifronti: «immagini di unione-opposizione di molteplici caratteri (…), di associazioni mentali, di maschere famose», scrive Ester Coen in catalogo, le ErmEstEtiche ibridano così ambiti distanti con quelli che sono veri e propri calembours visivi – equivalenti iconici dei mots-valise che Ontani impiega come titoli. Si va dalla cultura popolare (si ricorda che il primo dei suoi tableaux vivants, nel ’73 all’Attico di Sargentini, era un Tarzan) di BonaventurArte, che riprende il classico personaggio di Sergio Tofano – con ai piedi il fido bassotto che si morde la coda come un urobòro iniziatico –, al sapienziale ZarathustrAsso in cui da un lato si riconosce l’icona di Nietzsche, coi baffoni a manubrio e il capo coronato di spine (ad auto-citare al quadrato l’Ecce Homo), e dall’altro il cavallo picassiano di Guernica (così alludendo al fait divers per eccellenza della sua biografia, l’abbraccio al cavallo maltrattato di Torino). Se la «materia-piega» tipica dell’età barocca, diceva il Deleuze del grande saggio su Leibniz (La piega, 1988), «è una materia-tempo», l’Erma è davvero, come scrive Emanuele Trevi in catalogo, la «misura aurea» di Ontani. In quanto «principio di organizzazione formale che rimanendo identico a se stesso è anche capace di infinite trasmutazioni», essa rinvia a una concezione spiraliforme del tempo: analogo perfetto di quella barocca eternata da Borromini ma fatta propria spontaneamente, sin dagli esordi, dalla citazione e dall’auto-citazione di Ontani (infatti nessuna delle tante tecniche da lui padroneggiate, nota acutamente ancora Trevi, «corrisponde a un “periodo” particolare», e ciascuna «si ripropone in maniera ciclica»). Naturalmente anche il capo del filosofo dell’Eterno Ritorno, in ZarathustrAsso, è sormontato dall’emblema della Spirale.
Bernini a denti stretti
La rampa elicoidale di Palazzo Carpegna non è però solo un’allegoria del Tempo. È anche un’interpretazione radicale dello Spazio. In una delle carte che ancora oggi vengono in luce, preziosa testimonianza live di quella Roma barocca all’apice della sua potenza, il padre filippino Virgilio Spada – elesimoniere segreto di Innocenzo X e Alessandro VII, connaisseur d’architettura e architetto dilettante lui stesso, che di Borromini fu per decenni il grande protettore – racconta che una volta lo stesso Bernini, a denti s’immagina quanto stretti, gli confessò che «il solo Borromino intendeva questa professione, ma che non si contentava mai, e che voleva dentro una cosa cavare un’altra, e nell’altra l’altra senza finire mai». È un’osservazione acuta, che fa intuire l’introversione psicologica sottesa alla maniacalità di Borromini: alcuni dei suoi capolavori, come San Carlino alle Quattro Fontane o Sant’Agnese in Agone a Piazza Navona, sperimentano soluzioni rivoluzionarie proprio facendo forza sulla torturante limitatezza dello spazio; e il capolavoro illusionistico della Galleria prospettica di Palazzo Spada a Capodiferro noto come «Inganno del Borromini», del 1653, è un vero e proprio, rovesciato, cannocchiale architettonico (degno corrispondente del Cannocchiale Aristotelico, l’enciclopedia della metafora pubblicata giusto due anni dopo da Emanuele Tesauro) che prolunga, sino a una profondità apparente di quaranta metri, uno spazio lineare che in effetti non supera gli otto.
Allo stesso modo, ogni immagine di Ontani ne contiene in sé infinite altre. Ogni suo autoritratto, come s’è visto, ricapitola la filogenesi della storia dell’arte; ma in generale tutti i suoi lavori sono microscopiche Wunderkammern che «dentro una cosa» s’ingegnano a «cavarne un’altra, e nell’altra l’altra senza finire mai». È per questo che mai si finirebbe di commentarle. La vita d’un uomo – pare dirci con un sorriso l’artista –, proprio in quanto così oltraggiosamente brevis, contiene un’ars quanto mai longa: piega infinita che non basta una vita, appunto, a dispiegare