Quand’era un ragazzo, studente delle scuole medie a Torino, Luigi Longo aspirava a diventare un pittore. Aveva disegnato la carta geografica del Piemonte, con il nome delle principali città ben scritto e al posto giusto. Poi aveva acquarellato il disegno con i convenzionali colori usati negli atlanti: verdi le pianure, marroni le montagne, bianchi i ghiacciai, blu i fiumi e i laghi. Laghi, in Piemonte, si fa dire. Una virgola azzurra il Lago d’Orta e la striscia del Lago Maggiore sul confine lombardo segnato dal corso del Ticino, nel marrone prealpino della Val d’Ossola.

Anche le zone colorate in verde erano ridotte, necessariamente: pianure, in Piemonte, trovi ai piedi delle Colline del Po e delle Langhe, per un breve tratto tra Scrivia, Bormida e Tanaro. L’effetto cromatico della carta di Longo era tutto nel gioco di bianco e delle gradazioni del marrone, animato appena dalla porzione di un frastaglio verde a destra in basso, e da due punte di turchino, in alto, vicino al bianco del Monte Rosa e del Sempione.

Il professore molto apprezzò il talento di quell’alunno silenzioso e diligente. E in famiglia si cominciò a pensare al futuro di Luigi come a quello di un artista. La madre temeva per il figlio le incertezze di una vita di bohème e non perdeva occasione per ribadire l’importanza di attenersi a studi regolari coronati infine dal conseguimento d’una laurea. Ottenne il diploma a pieni voti e gli fu conferita una medaglia d’argento «per avere con il suo studio e il suo lavoro onorato la famiglia e la patria». Longo frequentò la Facoltà di Ingegneria fino al terzo anno e non la concluse. La madre lo avrebbe per questa inadempienza sempre rimproverato.

I Longo si erano trasferiti a Torino da Fubine, piccolo centro del Monferrato, nel 1907 quando Luigi ha sette anni. Piccoli proprietari, a Fubine producevano vino. A Torino aprirono una vendita di vino e una mescita. Luigi, fatti i quotidiani compiti scolastici, serve ai tavoli. Ma era destino che a Fubine, un’estate, lo scolaro Longo rinunciasse per tempo a perseguire quel precoce desiderio di farsi pittore. Uno scatto di orgoglio giovanile, si direbbe. Preceduto dalla fama del suo talento, come arriva per le vacanze estive a Fubine riceve da uno zio un incarico che si può ben dire prestigioso.

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Lo zio è il titolare della locale ed unica, e nel circondario assai reputata, stazione di monta taurina. Avere un pittore in casa può portare qualche vantaggio in famiglia. Bisogna saper cogliere l’occasione. Così lo zio fornisce a Luigi una bella lastra di latta e i colori per realizzare l’insegna dell’accreditato esercizio. Ci starebbe bene una bella testa di toro, gli suggerisce lo zio. Ecco che il ragazzo prende a delineare su certi fogli d’album le fattezze del toro e, per scrupolo, non trascura di far confronti anche con buoi, e vacche e mucche schizzando teste bovine dal vero in questa o quella stalla della campagna di Fubine. E c’è da star sicuri che quel pittorino giovane, concentrato, attento al suo lavoro, poco propenso a distrarsi, in quei non pochi giorni di apprendistato abbia ricevuto più di un complimento.

Così giovane e così serio e bravo. Luigi segretamente se ne compiace, è soddisfatto. Ecco che l’insegna è completata, con tanto di scritta a grandi lettere. E la testa è proprio la testa di un toro, non di un bue o di una mucca. Molti paesani, i clienti e qualche contadino sono intorno allo zio e al nipote che, trattenendo l’emozione, ha ricevuto per acclamazione il compito di calare l’ampia tovaglia che ancora impedisce di ammirare la sua opera. Lo zio lo sollecita. C’è attesa e legittima curiosità. Luigi tira lo spago e la tovaglia cade a terra, sull’erba ai suoi piedi. Apprezzamento, qualche applauso, perché è bella quella testa di toro, vigorosa, indomito segno di animale virilità. Poi, qua e là, le prime risate.

Longo, passati molti anni, ha chiarito: «Il giorno dell’inaugurazione mi accorsi che avevo commesso un errore nella scritta: anziché ‘toro piemontese’ avevo scritto ‘toro piemotese’, senza la enne». Da quel giorno Luigi Longo non dipinse più.