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Luigi Incoronato, scrittore dalla parte del torto

Luigi IncoronatoLuigi Incoronato

Novecento napoletano L’editore partenopeo Roberto Nicolucci prosegue nella riproposizione delle opere di Luigi Incoronato

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 15 giugno 2024

Grazie all’editore partenopeo Roberto Nicolucci prosegue la ristampa delle opere di Luigi Incoronato (Montréal 1920/Napoli 1967). Dopo il romanzo d’esordio Scala a San Potito ripubblicato nel 2022 con il romanzo autobiografico Le pareti bianche, uscito postumo nel ’68, ecco un nuovo titolo Compriamo bambini riedito nelle ultime settimane e presentato a Napoli nel Salotto Letterario «Le Zifere». La figura di Incoronato è indubbiamente poliedrica. Partigiano, scrittore, giornalista, insegnante, è un esponente eminente della narrativa meridionale del dopoguerra. Una vita breve e intensa, col tragico epilogo del suicidio. Un male profondo, inesorabile, che ha lacerato la sua psiche già angosciata. Isolato in un mondo verso cui ha lottato con la cultura e l’impegno politico nell’incessante e vano tentativo di mutarlo. La realtà, riproponendo storture e impossibilità di salvezza dalle ingiustizie, gli s’è opposta all’emancipazione dei ceti più indigenti, oppressi dalla classe dominante. Nasce in Canada da genitori emigrati: la madre Rosina Cerreti è astigiana, il padre Ottorino è di Ururi (CB).

Nel ’30, a dieci anni si trasferisce con la famiglia a Palermo dove termina gli studi classici. Nel ’38 s’iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia della Scuola Normale Superiore di Pisa. Dopo tre anni si trasferisce all’Università di Napoli laureandosi in Lettere con una tesi sulle Operette morali di Leopardi. Due anni dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale combatte come ufficiale di leva prima sul fronte francese e poi su quello greco-albanese dove, in seguito alle ferite riportate al braccio, viene insignito della medaglia di bronzo. È un’esperienza così traumatica, che gli ispirerà la trama di Le pareti bianche, in cui narra di un reduce di guerra che, tornato in Italia dopo esser stato ferito sul fronte greco-albanese, simula un’amnesia, metafora del silenzio e della solitudine dell’individuo, pur di non ritornare in guerra. Ha visto abbastanza e sa che dimenticare è impossibile. Un romanzo cupo e introspettivo che indaga sull’inconscio dell’animo umano, traboccante di smarrimenti e turbamenti. Una scrittura carica di melanconia e disperazione.

Militante comunista, partecipa alla Resistenza divenendo membro del Comitato di Liberazione Nazionale di Campobasso. Ritornato a Napoli nel ’43, sposa Elvira Campese, diventa segretario del Partito Comunista Italiano nella sezione Vicaria e accetta il primo incarico come insegnante all’istituto Santa Maria di Costantinopoli. «Gli avvenimenti e i personaggi di questo romanzo sono immaginari. Nella realtà esiste solo la Scala a San Potito, dove negli anni 1944-45-46-47 abitarono esseri umani». È la nota posta in calce al romanzo d’esordio del 1950 Scala a San Potito, apprezzato dalla critica e che gli vale la menzione al Premio Hemingway. È la storia di un intellettuale – suo alter ego – che mette al servizio del popolo la propria professione di scrittore e giornalista. Opta, quindi, di convivere con la vita sordida dei miserabili, dei senzatetto napoletani. «Il libro forse più amaro e buio mai scritto su Napoli», scrive l’amico e scrittore Ermanno Rea. Abiurando le certezze piccolo-borghesi, sancisce un legame con gli ultimi addentrandosi in un mondo dove si vive in estreme condizioni di degrado morale e materiale. Il romanzo focalizza una Napoli distante da qualsiasi stereotipo oleografico-folklorico e si può relazionare con il romanzo Speranzella dello scrittore e partigiano partenopeo Carlo Bernari pubblicato nel ’49. Entrambe le opere tratteggiano la vita dei ceti popolari nel secondo dopoguerra e durante l’occupazione americana.

Nello specifico, al vicolo Speranzella corrisponde la Scala a San Potito dove dimora un’umanità dolente, ferita, angosciata, al limite della sopravvivenza. Incoronato, inoltre, come Bernari, azzera ogni distanza tra sé e la collettività seguendo la traccia del concetto gramsciano di letteratura nazional-popolare. Nel ’52 pubblica Morunni, una raccolta di venticinque racconti, tutti ambientati nello stesso paese, Morunni per l’appunto, dietro cui si cela il piccolo borgo molisano di Ururi. Protagonisti sono i residenti della borgata, che attraverso le vicende personali delineano la storia del paese. Collabora con il quotidiano Paese Sera e con le riviste Cronache Meridionali, Nord e Sud, Il Contemporaneo, Rinascita. Con gli scrittori Mario Pomilio, Michele Prisco, Domenico Rea e Luigi Compagnone fonda nel ’60 la rivista Le ragioni narrative, un periodico che ripone nella cultura e nella letteratura la speranza di condizionare positivamente la società. Gli ottantaquattro racconti pubblicati dal ’54 al ’61 su Paese Sera sono raccolti ne L’imprevisto e altri racconti, pubblicato postumo nel 2006. Si ritrovano storie che rivelano una pluralità di casi, contesti e protagonisti in cui affiora una realtà multiforme.

Sempre nel ’60 pubblica Il Governatore, un romanzo ambientato in Molise, dove l’autore seguita a studiare le tematiche realistiche. Analizza innanzitutto il rapporto tra forze alleate e residenti autoctoni, allorché in Italia si lottava per sconfiggere lo strapotere nazifascista. Anche in questo romanzo si palesa una prospettiva autobiografica: in Molise, infatti, aderisce alla Resistenza e grazie alla conoscenza della lingua inglese diventa interprete presso il Comitato di Liberazione Nazionale. In Compriamo bambini, romanzo pubblicato nel ’63, si distanzia in maniera formale dalle altre pubblicazioni. L’opera, nonostante la peculiarità, non va interpretata come tentativo sperimentale mediante il quale egli desidera collocarsi nell’ambito della cultura d’avanguardia degli anni Sessanta, ma come denuncia di distruzione dei valori culturali, etici e linguistici provocata da una «mutazione antropologica» subìta dalla classe subalterna da parte della classe dominante. Un «genocidio culturale» prodotto dalla «civiltà dei consumi», citando Pasolini, imposto dal Potere dei nuovi e violenti linguaggi dei mass media, in primis la tv, responsabili del processo di «omologazione culturale».

La «civiltà dei consumi» con l’ausilio di sistemi «sottili, abili e complessi», specifici della dittatura della pubblicità e della prassi della manipolazione pianificata, opera «attraverso una sorta di persuasione occulta» una mediazione strumentale che sconvolge e lede il rapporto puro tra individuo e società, contaminandolo con linguaggi e comportamenti propri della borghesia. Tutta la sua produzione letteraria si fonda coerentemente con chi ha osservato con sguardo attento, critico ed esperto, carpendo le profonde disparità e le ingiustizie sociali cui stava andando incontro l’Italia del dopoguerra; un Paese che tra numerose complessità arrancava in quel difficoltoso tragitto di ripresa lasciandosi alle spalle masse di indigenti incapaci per cultura ed estrazione sociale di rinvenire la potenza per risollevarsi. Un intellettuale che ha analizzato con acume ogni cosa stando seduto sempre «dalla parte del torto», per dirla con Brecht.

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