In sociologia, gli approcci sistematici ad alto livello di astrazione non godono oggi di grande fortuna. Così è per il funzionalismo di Talcott Parsons, a lungo codice dominate della disciplina. E lo stesso vale per quello che ne rappresentò, qualche decennio dopo, l’erede teoricamente più ambizioso, la teoria dei sistemi di Niklas Luhmann. Negli anni settanta e ottanta l’approccio luhmaniano ebbe una notevole circolazione, anche nel nostro paese.

GLI EDITORI PIÙ AUTOREVOLI ne pubblicavano con regolarità le opere e il suo pensiero era ampiamente discusso, in ambito sia scientifico sia del dibattito politico più teoricamente informato. Anche se ad aderire alle sue prospettive analitiche non erano in molti, l’immagine di Luhmann era quella di un pensatore con cui era necessario confrontarsi, un moderato-conservatore, dal punto di vista politico, che sviluppava però le proprie ipotesi a partire da un impianto teorico assolutamente radicale, in sintonia con gli sviluppi delle scienze dell’informazione e del vivente ma con un saldo radicamento nei classici della sociologia e una spiccata sensibilità storica. In sintesi, l’impressione era quella di un autore che, su un versante politico opposto e a partire da coordinate concettuali diverse, incrociava molte delle problematiche su cui insistevano il marxismo critico o il «poststrutturalismo».

SUCCESSIVAMENTE, quell’interesse è scemato, tanto che le opere di Luhmann sono progressivamente scomparse dalle nostre librerie, e molte mai ci sono arrivate. Soprattutto, le pubblicate negli ultimi anni di vita del sociologo, morto nel 1998. E tuttavia, le ragioni per riaprire la pratica Luhmann non mancano. In particolare, si potrebbe notare come il suo approccio alla modernità quale processo di differenziazione di ambiti sistemici sempre più autonomi e autoreferenziali si presti assai bene a considerare le dinamiche del presente. Non a caso alcuni dei tentativi più brillanti, come quelli di Gunther Teubner, di concettualizzare le possibilità di azione su sistemi parziali globali, in particolare la finanza, ma non solo, che sempre più sfuggono al controllo della politica trovi nella teoria dei sistemi di Luhmann la propria base concettuale.

NEL CORSO DELL’ULTIMO ANNO, la collana Concordia oppositorum dell’editore Mimesis si è impegnata in maniera non occasionale per proporre opere relative all’ultima fase della ricerca luhmaniana. Recentemente è uscita una raccolta di scritti, dal titolo Che cosa è la comunicazione? (pp. 161, euro 16), che ruota intorno al concetto di comunicazione, a cui Luhmann affida un ruolo centrale nella definizione dell’oggetto su cui si applica l’indagine sociologica.
Circa un anno fa, nella stessa collana era stato pubblicato L’arte della società (pp. 360, euro 28), un volume, uscito nel 1995, che si inquadra all’interno di una serie di opere con cui Luhmann, dopo la sintesi di Sistemi sociali (il Mulino 1990), si proponeva di costruire «una teoria della società» considerando in dettaglio i diversi sistemi di funzione. In successione, come in una sorta di enciclopedia delle scienze sociologiche non in compendio, sono state editate monografie sull’economia, la scienza, il diritto (tradotta da Giappichelli nel 2012 con il titolo Il diritto della società), la religione, la formazione. L’arte della società, quindi, permette di gettare uno sguardo sulla produzione luhmaniana dell’ultimo decennio, ritrovando un autore che, lungi dal fossilizzarsi, apre il proprio progetto di ricerca a ambiti inediti confrontandosi con nuove problematiche e bibliografie.

MA IL VALORE DELL’OPERA non sta solo qui. In un ambito come quello dell’estetica e della riflessione sulle pratiche artistiche, che da qualche decennio appare sclerotizzato all’insegna di un eclettismo sempre più ripetitivo, la cifra teorica «forte» della proposta luhmaniana lascia decisamente il segno, proponendo nuove chiavi di lettura sui processi di autonomizzazione del sistema dell’arte ma anche scendendo nel concreto della produzione dell’opera, della sua relazione con l’autore e i pubblici, sul concatenamento delle distinzioni che definisce il percorso della sua «autoprogrammazione». Avventurarsi nelle pagine ostiche di L’arte della società non è certo facile, ma senza dubbio ne vale la pena.