Non più interferenze nei fatti interni di Atene, nemmeno panico per un’eventuale uscita della Grecia dalla zona euro. Negli ultimi giorni Berlino, e di conseguenza Bruxelles, stanno cambiando rotta. Sembrano aver deciso di rinunciare alla strategia della paura e alle chiacchiere sul «Grexit», almeno fino al 25 gennaio, giorno delle elezioni anticipate.
Indicativo è l’ intervento del presidente dell’europarlamento. «Il dibattito e la speculazione irresponsabile sul Grexit non aiutano… le ingerenze che lasciano pensare ai greci che non sono loro a decidere del loro futuro con il voto, ma Bruxelles o Berlino, spingono gli elettori alle braccia delle forze radicali» ha detto Martin Schulz in un’ intervista al quotidiano Die Welt.
Horst Zeechofer, presidente della Csu bavarese, partner della Grosse Koalition ha fatto notare che «in Germania certe volte abbiamo la tendenza di essere i custodi di altri paesi, ma non dobbiamo interferire nella campagna elettorale greca». Nella stessa lunghezza d’onda anche altri leader politici europei, come il capogruppo nel parlamento tedesco dei Verdi e il ministro delle finanze austriaco.

Diversi potrebbero essere i motivi di questo cambiamento di atteggiamento, ma forse è più giusto parlare di un rinvio dello scontro, quasi inevitabile, tra un governo delle sinistre, nel caso che in Grecia dovesse vincere Syriza, e la linea politica di Angela Merkel.
La zona euro si è rafforzata negli ultimi due anni, anche grazie al Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e alla sua dotazione di 500 miliardi, di conseguenza la Grecia, a sentire economisti, non rappresenta più un pericolo cosi grande come nel 2009. Un Grexit, però, provocherebbe un effetto domino in tutta la zona euro, una scossa fortissima alle fondamenta della stessa Unione. «State attenti. Se la Grecia se ne va, addio euro. Qualsiasi paese se ne andrà, di fatto sarà messa in dubbio l’esistenza della moneta comune» ha avvertito l’agenzia Bloomberg.
L’Ue, in altri termini potrebbe far fronte in un primo periodo a un Grexit, che però, almeno nei primi mesi, sarebbe terribile per Atene. Successivamente il pericolo del contagio ad altri paesi, soprattutto quelli del sud Europa, sarebbe difficilmente gestibile da Berlino e Bruxelles. In base al trattato di Lisbona non è possibile l’uscita di un paese membro dalla zona euro, anche a questo stanno ripensando Angela Merkel e Wolfgang Schauble.

I partners europei stanno anche facendo i conti con il fatto che – anche a causa delle reazioni pronte della sinistra radicale greca – i conservatori della Nea Dimokratia e i socialisti del Pasok sono anche loro in campagna elettorale. Sono sì gli alleati naturali di Berlino e Bruxelles, ma non conviene appoggiarli tanto apertamente come è stato fatto durante le ultime elezioni presidenziali.
E infine la prudenza ha anche un’altra ragione, rivelata dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung che ha scritto di un rapporto dell’Istituto per l’economia mondiale (Ifw) e dell’Istituto di ricerche economiche (Ifo) con sede a Monaco. Secondo gli economisti tedeschi, il costo dell’uscita della Grecia dalla zona euro per la Germania sarebbe circa il doppio di quello che il governo di Berlino potrebbe pagare nel caso accettasse il taglio del debito pubblico greco dall’attuale 175% del Pil al 90% – come da proposta di Syriza.
Il presidente dei Liberali all’europarlamento, Guy Verhofstat, ha dato le cifre anche per gli altri paesi. Il Grexit costerebbe 44 miliardi di euro all’Italia, 3 miliardi all’Irlanda, 6 al Portogallo, 29 alla Spagna e 49 miliardi alla Francia. Dati che ben descrivono l’eventuale Grexit come una minaccia per l’intera struttura europea. In tutto questo la politica di austerity, il programma lacrime e sangue imposto dalla troika (Fmi, Ue, Bce) alla Grecia, non ha avuto alcun effetto sul contenimento del debito pubblico, che anzi è salito dal 110% al 175% del Pil negli ultimi quattro anni. Una prova evidente dell’insuccesso delle misure imposte.

Il programma lacrime e sangue è servito solo ad arricchire ulteriormente gli oligarchi greci, business-men strettamente legati ai due partiti del potere. Secondo un’ inchiesta della banca svizzera Credit swiss, fino al 2008 – prima cioè della crisi e dell’applicazione dei memorandum – l’1% dei greci era in possesso del 48% della ricchezza nazionale. Nel 2014, dopo sei anni di recessione, la stessa oligarchia è passata a detenere il 56% della ricchezza.
Berlino non rinuncerà certo a ricordare ad Atene – e quindi anche ad un eventuale governo delle sinistre – gli impegni sottoscritti dai governi precedenti, ma sta preparando il terreno per venire incontro alla richiesta di Syriza di un hair-cut del debito pubblico, quella che secondo Alexis Tsipras è la condizione indispensabile per la crescita. Un hair-cut che potrebbe essere tradotto in un prolungamento del tempo di ammortamento del debito, oppure in una riduzione del tasso d’interesse. La soluzione non è semplice ed è per questo che in questi giorni ci si sta interrogando su quale potrebbe essere un compromesso valido per entrambe le parti. Quel che è certo è che né Tsipras né i partners europei vorrebbero la Grecia fuori dalla zona euro. Per la prima volta nella storia recente dell’Ue una forza politica come Syriza, a un passo dalla conquista del potere, si oppone alle politiche di Berlino non su posizioni euroscettiche, ma proponendo una strada diversa per l’Europa.
Intanto nella sua campagna elettorale il premier uscente Antonis Samaras evita accuratamente questi argomenti, e cerca di diffondere paura. Dopo il massacro di Parigi nella redazione di Charlie Hebdo, al «pericolo Syriza» ha aggiunto «il pericolo dell’Islam e degli immigrati clandestini» che minaccerebbero «la nazione greca».