Fra i pensieri sparsi pubblicati nel 1950 in Brogliaccio, Raffaele Carrieri scriveva di Lucio Fontana: «Lo vediamo partire come un minatore e tornare con un quarzo a forma di medusa. Se ne va col suo passo di bracciante a costruire fregi intorno ai vulcani. Le sue idee sono semplici e sproporzionate. È il cavamonte della scultura italiana». Soltanto chi aveva conosciuto e frequentato l’artista italo-argentino negli anni trenta poteva provocare questo cortocircuito fra le «maioliche geologiche», a cui aveva dedicato un articolo nel 1939, e le ricerche riprese da Fontana dopo il rientro in Italia a guerra finita, di cui fu il primo esito dirompente l’Ambiente a luce nera presentato nella galleria milanese di Carlo Cardazzo nel febbraio 1949.
Si è dunque tentati di recuperare, in questa prospettiva, una provocatoria domanda posta da Enrico Crispolti nel 2007: cosa sarebbe successo se Fontana fosse stato soltanto uno scultore? E che risalto avrebbe avuto il suo profilo di artista poliedrico ed eclettico se non avesse mai realizzato i «barocchi», gli «inchiostri» e soprattutto i più noti «tagli». Cosa ne sarebbe stato, insomma, se tutta la ricerca pittorica sviluppata nel dopoguerra – con la sua irruente inventiva così gravida di conseguenze – non fosse esistita? Il «caso» Fontana, nella sua singolarità ed eccezionalità, non era infatti per lo studioso romano una novità circoscritta al ventennio iniziato nel 1947, o meglio se ne sarebbe data una lettura insufficiente trascurando le premesse poste dall’artista negli anni trenta, quando la sua scultura non fu soltanto precorritrice inconsapevole delle future istanze informali, ma un fenomeno a sé stante nel panorama delle ricerche figurative coeve.

Prendono le mosse di qui, allora, i due tomi pubblicati da Skira su Lucio Fontana Catalogo ragionato delle sculture ceramiche (pp. 818, euro 350,00), curati da Luca Massimo Barbero, a cui è spettato il compito di portare a compimento il progetto di catalogazione complessiva dell’intero corpus fontaniano immaginato da Crispolti a partire dal ragionato di pittura, scultura e ambienti pubblicato nel 2006 (incrementando i precedenti censimenti dei primi anni settanta e primi anni ottanta), e proseguito con quello dell’opera su carta, firmato dallo stesso Barbero nel 2013.

Lucio Fontana, «Concetto spaziale, Natura», 1959-’60, terracotta patinata e squarcio a buco, © Fondazione Lucio Fontana by SIAE 2022

La ceramica, in questo processo di messa a fuoco progressiva, è arrivata per ultima – dopo oltre sei anni di catalogazione condotta dalla Fondazione Lucio Fontana di Milano – ma ha raccolto e messo a sistema la copiosa esperienza di ricerca intorno a questo aspetto della produzione fontaniana rimasto negletto fino ai primi anni Duemila, e recuperato da studi ed esposizioni susseguitisi con ritmo crescente, fino alla mostra di sola scultura, anch’essa curata da Barbero, presentata presso Hauser & Wirth a New York nell’autunno 2022. Da qui, poi, non si apre soltanto una nuova circolazione internazionale dell’opera di Fontana: compulsando un repertorio così ricco e complesso, infatti, può prendere avvio una nuova stagione di indagini puntuali, o si potranno rileggere con maggior consapevolezza brani della critica e stagioni della vita di Fontana, seguendolo giorno per giorno nelle peregrinazioni di studio in studio, di fornace in fornace, fra Milano, Albisola e Sèvres.

È un punto d’appoggio importante, questo, per decifrare ad esempio gli indizi disseminati nel carteggio intercorso dal 1936 al 1964 fra l’artista italo-argentino e Tullio D’Albisola, di prossima pubblicazione in un’edizione aggiornata e minutamente commentata da Luca Bochicchio per Abscondita; o per seguire i numerosi percorsi esplorativi proposti dal Dizionario Lucio Fontana in preparazione per Quodlibet, che insieme al carteggio appena ricordato costituisce un cruciale e confortante segnale di apertura da parte della Fondazione milanese alle nuove generazioni di studiosi.

È sufficiente, però, sfogliare i due tomi recenti, e i due ricchi quinterni di illustrazioni a colori posti a corollario del catalogo vero e proprio, per trovare delle sorprese, e per comprendere la non banale dicitura con cui, fin dal titolo, viene denominata questa produzione. Essa discende infatti da un’affermazione dell’artista stesso vergata nel 1939, con un moto d’orgoglio, in un articolo molto noto per le pagine del settimanale «Tempo» su La mia ceramica: «io sono uno scultore e non un ceramista». Eppure Fontana si è saputo muovere con disinvoltura non solo fra la scultura e la grande decorazione – dialogando alla pari con gli architetti – ma anche in una produzione funzionale di oggetti in ceramica, mostrando una costante tenuta qualitativa garantita dalla vitalità «barocca» e dalla duttilità con cui si è servito del sapere artigiano incontrato nelle manifatture di Albisola, dove scoprì le superfici riflettenti dei lustri – preludio alle sculture a mosaico –, e di Sèvres, dove si misurò con le asperità materiche del grés.

Fra colore e modellato, poi, aveva stabilito un rapporto di reciproca interferenza: da una parte la resa volumetrica di sprezzante modellatura, erede degli arcaismi di Arturo Martini; dall’altra una stesura del colore straniante, capace di sovvertire la percezione tridimensionale della forma, estranea alla retorica della statuaria monumentale. Le stesse scelte cromatiche tradiscono infatti un atteggiamento anti-canonico: un colore che sgombra il campo, in molti casi, dalla tentazione di scoprire allusioni al mondo naturale, e che anzi enfatizza il risvolto «artificiale» sotteso a quei volti dipinti in oro, a certi corpi colorati di un blu elettrico o di un nero fondo come la pece, fino all’insorgere nel dopoguerra di una sensibilità «pop» e di un immaginario industriale.

Fontana aveva ripreso i modelli e i generi classici della storia della scultura, dal busto ritratto rinascimentale ai loricati antichi fino alla scultura animalier, reinventandoli con spregiudicata ironia e strizzando l’occhio alla pittura. Non sarebbe azzardato, anzi, accostare certi frammenti di fondale marino o altri esemplari dell’animatissimo «bestiario» fontaniano a certe nature morte di De Pisis: la materia si increspa sotto le mani come un esuberante grumo germinativo, impreziosito dagli smalti come un minerale. E ci voleva poco perché quello stesso pugno di terra, in un rapido colpo di pollice, si trasformasse in un fregio con battaglie, magari istoriato fra le volute di un piatto vecchia Savona, o in un Crocefisso, Madonnina votiva, o Via Crucis, oggetto di altrettanti capitoli della dettagliatissima tassonomia in diciannove categorie – di matrice crispoltiana – usate per organizzare filologicamente la produzione figurativa (1936-’59) e quella spazialista (1949-’66), evidenziando costanti iconografiche e morfologiche.

Fra queste polarità, tuttavia, vige una profonda e sotterranea continuità: dal disegno di sola linea che da figura primordiale si trasforma in arabesco, alle teorie di buchi disseminate sul corpo dei vasi con elegante scrittura, talvolta con un intemperante schizzo di ingobbio o smalto a simulare un’esplosione improvvisa. È come se le mani di Fontana avessero fatto emergere un’energia tellurica latente, pronta a sprigionarsi tramite un repertorio di gesti semplici e primordiali: la ferita che apre un varco nelle Nature, che irrompono sulla scena nel 1959, mostra un’animazione interna, un sommovimento che preme sulla crosta esterna di questi grandi volumi sferoidali. E da quella profondità, forse, ha origine un mondo nuovo e primigenio.